Svelati i misteri di un sistema inaffidabile, distorsivo e
fuorviante di Roberta Gisotti (Portavoce del 'Tavolo
permanente sulla questione Auditel')
Un male endemico incombe in tutte le redazioni televisive,
incluse quelle dei telegiornali, un male che si è diffuso e
radicato da quasi 20 anni, un male che ha fagocitato il
senso stesso della comunicazione, orientandola nella ricerca
spasmodica dell’audience, del consenso, del successo. Un
male ‘creato’ nei computer dell’Agb-Italia a Milano,
la società che per conto dell’Auditel ogni giorno sforna
i dati sugli ascolti televisivi, comunicandoli attraverso la
stampa al Paese intero, come se fosse notizia di pubblica
utilità. La ricerca dell’ascolto è divenuta la prima
attività di ogni persona che operi in Televisione in
qualunque ruolo e livello di responsabilità, dai presidenti
e direttori, autori, giornalisti, conduttori, artisti fino
agli impiegati e alle maestranze. Peccato che l’Auditel
sia in realtà un sistema di rilevamento del tutto
inaffidabile, distorsivo e fuorviante. Sul piano legale
l’Auditel è una società suddivisa in parti uguali tra la
Rai (33%), l’emittenza privata (33%) e gli Utenti della
pubblicità e i Centri media (33%), oltre ad 1% della
Federazione editori giornali (Fieg). Una società non super
partes come si vorrebbe ma intra pares, dove i
‘controllati’ sono anche i ‘controllori’. Nata nel
dicembre 1986, per spartire la torta degli investimenti
pubblicitari, l’Auditel è il frutto di un
‘malaugurato’ patto stretto tra la Rai , l’allora
Fininvest SpA e l’Upa, la società che rappresenta gli
utenti della pubblicità. Un patto che ha sancito il
duopolio televisivo e l’ha reso inattaccabile, impedendo
di fatto la nascita di un terzo, quarto, quinto polo come
era auspicabile e impedendo lo sviluppo dell’emittenza
locale, privata dei necessari finanziamenti pubblicitari,
assorbiti per circa il 97 per cento da Rai e Mediaset, che
in base ai dati Auditel raccolgono il 90 per cento e più
dell’audience totale. Ma quali garanzie abbiamo
sull’equità di spartizione di tali cospicui investimenti
che confluiscono nella Televisione? Alcuna garanzia, eppure
l’Auditel è l’unico sistema di rilevamento accettato da
Rai, Mediaset e Upa per contrattare i finanziamenti
pubblicitari. Questo perché attraverso l’Auditel si è
instaurato di fatto un regime di finta concorrenza, dove le
quote della pubblicità tra Rai e Mediaset sono rimaste
sostanzialmente invariate da 18 anni, offrendo stabilità ad
un mercato lievitato di anno in anno e monopolizzato da un
gruppo ristretto di grandi Marchi, che producono beni di
largo consumo. Poco importa dunque ai grandi investitori che
il dato Auditel sia veritiero o no e sapere con esattezza se
un programma sia stato visto da un milione in più o in meno
di spettatori: l’importante è mantenere l’esclusiva del
più vasto mercato mediatico. La guerra dell’audience è
solo un espediente per mantenere alta l’attenzione sul
mercato, perché in realtà l’Auditel è un sistema
inaffidabile che non misura la qualità ma neanche la
quantità. L’Auditel registra infatti con certezza solo
apparecchi accesi e spesso confonde perfino i canali
sintonizzati. Si serve di un campione di circa 5 mila
famiglie, la cui lista è rimasta segreta perfino alle
autorità dello Stato; né sono state rivelate le 10/12 mila
famiglie che dovrebbero essere già uscite dalla ricerca,
circa 30 mila persone che in 19 anni mai hanno approfittato
dell’opportunità di venire alla ribalta sui media. E’
un campione di consumatori e non di cittadini-utenti, che
rappresenta solo il 10 per cento della popolazione, perché
su 10 famiglie contattate solo 1 accetta di porre il meter
sul proprio televisore, e nulla sappiamo del restante 90 per
cento che rifiuta di essere campionato, e di cui ignoriamo -
secondo la scienza statistica - le scelte di ascolto.
Inoltre è dimostrato che un apparecchio Tv per il 40 per
cento del tempo in cui è acceso o non viene guardato o è
visto solo distrattamente, ma basta restare sintonizzati per
31 secondi su un canale e si viene compresi nel pubblico di
quel programma. Infine non vi è alcuna garanzia che le
famiglie-campione, con bambini ed anziani centenari, che
restano tali mediamente per 5 anni - ma alcune hanno
‘confessato’ di esserlo state per 10-12 anni - si
sottopongano con diligenza a svolgere un vero e proprio
oneroso lavoro: ovvero registrare 24 ore su 24 su un
telecomando cosa accade davanti alla loro Tv, in cambio di
un piccolo elettrodomestico ogni anno. Sono state infatti
tutte negative le testimonianze delle poche coraggiose
famiglie-campione intervistate, mentre non vi è stato mai
un riscontro positivo. Si aggiungono poi i limiti tecnici,
per cui i dati Auditel paradossalmente sono più affidabili
- fatte salve le riserve sopra elencate - sui grandi numeri,
nelle ore di maggiore ascolto, per cui un emittente minore
come La7 può maturare errori di stima fino al 70 per cento
al mattino. C’è poi il problema delle sovrapposizioni di
frequenze tra le Reti. Nelle ore serali solo Rai 1, Canale 5
e La 7 non si sovrappongono, e al pomeriggio solo Rai 2 e La
7, mentre tutte le altre emittenti spesso si confondono ed
è impossibile attribuire con certezza le audience dei vari
canali. Ma ciò che interessa tutti è la ricaduta degli
indici d’ascolto sull’intera società, perché
l’Auditel ha assunto la valenza di consenso popolare,
oltre che veicolo di valori e disvalori, di consumi e stili
di vita, di orientamenti politici, ideologici, culturali,
religiosi che sono proposti o meglio imposti come scelte di
una maggioranza che s’identifica con l’audience -
entità impalpabile, virtuale - ma che diviene dominante,
perché nell’accezione comune il dato Auditel è quello
che la gente vuole. Ma in realtà la gente vuole quello che
decide l’Auditel. E cosí siamo arrivati al punto che noi
cittadini che accendiamo la tv e coloro che lavorano in tv
partecipiamo inconsapevoli a una colossale messinscena a uso
esclusivo della vendita di pubblicità. Credo che il
Parlamento di un Paese democratico, come è l’Italia, non
possa e non debba piú demandare di porre mano alla
questione Auditel, strumento privato di potere coercitivo
della pubblicità, che di fatto si è impossessata della
comunicazione televisiva a propri fini commerciali, a danno
della libertà di espressione, della creazione
intellettuale, del veritiero consenso del pubblico, della
crescita culturale e sociale della popolazione.
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