La battaglia per l'ambiente
Grazie a una forte pressione di cittadini globali a Bali si
è evitato il peggio. Occorre entro il 2009 firmare un nuovo
trattato per far fronte al riscaldamento globale
Franco Giampiccoli
COME la barca che nella regata affronta il giro di boa
riduce la velocità per la virata, così la XIII Conferenza
sul Cambiamento climatico a Bali si è quasi fermata prima
della sua conclusione il 14 dicembre. Se essa dovrà essere
ricordata domani come un giro di boa, lo dirà il futuro. Ma
se la barca avrà un futuro è perché a Bali ha evitato di
rovesciarsi.
Si trattava di iniziare la trattativa per un nuovo patto di
riduzione globale di emissioni di anidride carbonica - uno
dei peggiori fattori del riscaldamento climatico - dopo la
faticosa esperienza del primo trattato, Kyoto, che si
concluderà nel 2012 con scarsi risultati. A Bali, dopo
giorni di un lento bordeggiare, la barca stava avviandosi al
consenso, quando Giappone, Canada e Stati Uniti si sono
messi di traverso rifiutando qualsiasi indicazione numerica
per le riduzioni percentuali da raggiungere e qualsiasi
indicazione di un termine temporale entro cui attuarle. Per
evitare il naufragio, con la proroga di 24 ore, frenetiche
trattative portano prima al cedimento del Giappone, e poi a
una sorprendente inversione di marcia del Canada che
permette al gruppo dei paesi aderenti al trattato di Kyoto,
tra cui il Canada stesso, di fissare al 25-40% le riduzioni
di CO2 da raggiungere tra il 2012 e il 2020. Ma gli Stati
Uniti, ostinati oppositori di ogni discorso di riduzione e
non aderenti al protocollo di Kyoto, continuano a essere
contro. Nell'ultima sessione appare il compromesso finale,
le percentuali portate a una barcollante forbice tra 10 e 40
e cacciate dal testo per finire in una nota, la data del
2020 appena accennata. La rappresentante Usa prende la
parola e rifiuta l'ultima possibilità di accordo. Abbiamo
letto sui giornali qualcosa di quello che difficilmente si
poteva immaginare: 25 minuti di sollevazione generale, fatta
di interventi vibranti, applauditi, insistiti. Dopo meno di
mezzora la delegazione Usa realizza il proprio completo
isolamento e cede.
Il documento votato all'unanimità è come sempre un
compromesso. Non si inizia a negoziare il dopo-Kyoto, si
dovrà attendere il 2009 (e cioè il nuovo presidente Usa)
per cominciare a mettere nero su bianco impegni
precisi.
Ma non è un compromesso da poco: al blocco dei paesi
firmatari di Kyoto si aggiungono tutti gli altri, per lo
meno con un orientamento comune, per cui non c'è chi tra i
paesi ricchi dice «noi non intendiamo diminuire», né tra
i paesi emergenti chi avverte «non sognatevi di
limitarci». E questo è già un passo avanti.
Sott'acqua
Questi i tratti sommari della vicenda di Bali che molti
hanno letto con maggiori dettagli sui giornali. Ma quale è
stata la parte sommersa di questa pericolosa navigazione? In
altra parte del giornale si parla dell'azione di un gruppo
di pressione che sentiamo particolarmente vicino, il
Consiglio ecumenico delle chiese. Ma qui vorrei dare qualche
notizia su una gigantesca mobilitazione che nello spazio di
72 ore ha contribuito a evitare il naufragio. È difficile
quantificare l'impatto dell'opinione pubblica, ma sulla
sorprendente virata del Canada avrà pure influito la
richiesta di 110.000 cittadini che chiedevano al proprio
paese di smettere di bloccare la trattativa, la pubblicità
a piena pagina sui giornali canadesi di una caricatura della
bandiera canadese, l'ira montante di un intero paese. Così
non saranno state del tutto irrilevanti le migliaia di
e-mail inviate in una notte al premier Fukuda per chiedere
una condotta politica responsabile da parte del Giappone.
Né le decine di migliaia di messaggi con cui cittadini
statunitensi hanno bombardato non la loro delegazione, ma
tutte le altre invitandole a non piegarsi, dicendo: «Per
favore, non tenete conto della squadra del presidente Bush:
non rappresenta il popolo americano».
Infine, nelle ultime ore viene coordinata la più vasta
petizione mai vista: 2.600.000 voci per «fermare a Bali il
naufragio del clima».
Ma chi è riuscito a portare questa pressione all'interno
del bunker dei negoziati e ha coordinato gli appelli di una
dozzina di organizzazioni internazionali? Un giovane
movimento che ha radici antiche.
Avaaz
Avaaz.org - un'organizzazione il cui nome in diverse lingue
orientali significa «voce» o «canto» - è una comunità
di cittadini globali che assumono una responsabilità attiva
per un mondo più giusto e pacifico e per la prospettiva di
una globalizzazione dal volto umano. Avaaz è stata fondata
tra gli altri da MoveOn, uno dei primi movimenti politici a
usare Internet per le campagne di pressione. Tra i fondatori
di Avaaz figura infatti Eli Pariser, che forse alcuni
ricorderanno come un infaticabile promotore e organizzatore
della campagna pacifista di MoveOn che nel 2002 e 2003
contribuì a far scendere in piazza milioni di persone nelle
più grandi manifestazioni pacifiste mai viste.
Quelle azioni non hanno impedito la guerra in Iraq, ma
intanto gli Stati Uniti stanno risvegliandosi dal sonno
ipnotico che il presidente Bush era riuscito a stendere sul
paese dopo l'11 settembre. Così le pressioni globali
esercitate durante tutto l'anno e culminate a Bali non sono
riuscite a far salpare un nuovo negoziato per il dopo-Kyoto,
ma intanto hanno contribuito a salvare la Conferenza da un
disastroso naufragio.
Bali però è solo una tappa e non è che l'inizio, avverte
il combattivo comunicato di Avaaz: «Ora ogni nazione di
questo mondo ha concordato di accelerare i negoziati per
arrivare, con il 2009, a firmare un nuovo trattato per far
fronte al riscaldamento globale. Abbiamo bisogno di questo
trattato per fissare mete globali vincolanti per le
emissioni di CO2 e un meccanismo che consenta di rispettarle
impedendo alla temperatura del pianeta di aumentare di più
di 2 gradi - il livello oltre il quale gli scienziati
ritengono che l'aumento sarebbe catastrofico. Quel trattato
cambierà l'economia mondiale per sempre, svezzandoci dalla
dipendenza dal petrolio e dai combustibili fossili a favore
di fonti energetiche più pulite. Alcuni leader, legati a
filo doppio all'industria petrolifera, lotteranno con le
unghie e con i denti fino in fondo. Così faremo anche noi.
La più grande battaglia per salvare l'ambiente è iniziata
e negli ultimi giorni della Conferenza di Bali abbiamo
dimostrato che la gente non intende star seduta a
guardare».
Non so se tra due anni riusciremo ad avere un trattato che
cambi per sempre l'economia mondiale. Ma so per certo che
non possiamo stare seduti a guardare.