giggi 4 marzo 2008 0:00
Capitolo I Quel ramo del lago di Como , che volge
a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto
a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare
di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a
prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a
destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il
ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor
più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni
il punto in cui il lago cessa, e l'Adda rincomincia, per
ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di
nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in
nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal
deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due
monti contigui, l'uno detto di san Martino, l'altro,
con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in
fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché
non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come
per esempio di su le mura di Milano che guardano a
settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno,
in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome
più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la
costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in
poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo
l'ossatura de' due monti, e il lavoro
dell'acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci
de' torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il
resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali;
in qualche parte boschi, che si prolungano su per la
montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà
nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva
del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso,
quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d'oggi,
e che s'incammina a diventar città. Ai tempi in cui
accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, que1 borgo,
già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò
l'onore d'alloggiare un comandante, e il vantaggio
di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli,
che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del
paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche
marito, a qualche padre; e, sul finir dell'estate, non
mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar
l'uve, e alleggerire a' contadini le fatiche della
vendemmia. Dall'una all'altra di quelle terre,
dall'alture alla riva, da un poggio all'altro,
correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o
men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due
muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo
di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su
terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti
più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa
nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della
vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte
campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un
pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di que1 vasto e
variato specchio dell'acqua; di qua lago, chiuso
all'estremità o piùttosto smarrito in un gruppo, in un
andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato
tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo,
e che l'acqua riflette capovolti, co' paesetti posti
sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume
ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur
tra' monti che l'accompagnano, degradando via via, e
perdendosi quasi anch'essi nell'orizzonte. Il luogo
stesso da dove contemplate que' vari spettacoli, vi fa
spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le
falde, vi svolge, al di sopra, d'intorno, le sue cime e
le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo,
aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v'era
sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che
poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l'ameno,
il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il
selvaggio, e orna vie più il magnifico dell'altre
vedute. Per una di queste stradicciole , tornava bel
bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7
novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato d'una
delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il
casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto, né a
questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il suo
ufizio, e talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il
breviario, tenendovi dentro, per segno, l'indice della
mano destra, e, messa poi questa nell'altra dietro la
schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e
buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano
inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati
oziosamente gli occhi all'intorno, li fissava alla parte
d'un monte, dove la luce del sole già scomparso,
scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e
là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di
porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un
altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta,
dov'era solito d'alzar sempre gli occhi dal libro, e
di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo
la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta
passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d'un
ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava
alla cura: l'altra scendeva nella valle fino a un
torrente; e da questa parte il muro non arrivava che
all'anche del passeggiero. I muri interni delle due
viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un
tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe,
serpeggianti, che finivano in punta, e che,
nell'intenzion dell'artista, e agli occhi degli
abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con
le fiamme, cert'altre figure da non potersi descrivere,
che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a
color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche
scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e
dirizzando, com'era solito, lo sguardo al tabernacolo,
vide una cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe
voluto vedere. Due uomini stavano , l'uno dirimpetto
all'altro, al confluente, per dir così, delle due
viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso,
con una gamba spenzolata al di fuori, e l'altro piede
posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi,
appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto.
L'abito, il portamento, e quello che, dal luogo
ov'era giunto il curato, si poteva distinguer
dell'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor
condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella
verde, che cadeva sull'omero sinistro, terminata in una
gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme
ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una
cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole:
un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come
una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori
d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone,
con una gran guardia traforata a lamine d'ottone,
congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista
si davano a conoscere per individui della specie de'
bravi. Questa specie, ora del tutto perduta, era allora
floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne
avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno
darne una bastante de' suoi caratteri principali, degli
sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa
vitalità. Fino dall'otto aprile dell'anno
1583, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don
Carlo d'Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di
Terranuova, Marchese d'Avola, Conte di Burgeto, grande
Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di
Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in
Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in
che è vivuta e vive questa città di Milano, per cagione
dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di essi.
Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo
bando, e doversi ritenere bravi e vagabondi à i quali,
essendo forestieri o del paese, non hanno esercizio alcuno,
od avendolo, non lo fanno... ma, senza salario, o pur con
esso, s'appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo,
officiale o mercante... per fargli spalle e favore, o
veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad
altri... A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni
sei, abbiano a sgomberare il paese, intima la galera a'
renitenti, e dà a tutti gli ufiziali della giustizia le
più stranamente ampie e indefinite facoltà, per
l'esecuzione dell'ordine. Ma, nell'anno
seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto signore, che
questa Città è tuttavia piena di detti bravi... tornati a
vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume
loro, né scemato il numero, dà fuori un'altra grida,
ancor più vigorosa e notabile, nella quale, tra l'altre
ordinazioni, prescrive: Che qualsivoglia persona, così
di questa Città, come forestiera, che per due testimonj
consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et
aver tal nome, ancorché non si verifichi aver fatto delitto
alcuno... per questa sola riputazione di bravo, senza altri
indizj, possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser
posto alla corda et al tormento, per processo informativo...
et ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia
mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione
e nome di bravo, come di sopra. Tutto ciò, e il di più che
si tralascia, perché Sua Eccellenza è risoluta di voler
essere obbedita da ognuno. All'udir parole d'un
tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da
tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo
rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre.
Ma la testimonianza d'un signore non meno autorevole,
né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il
contrario. E' questi l'Illustrissimo ed
Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco,
Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua
Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e
Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli
sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano,
etc. Il 5 giugno dell'anno 1593, pienamente informato
anche lui di quanto danno e rovine sieno... i bravi e
vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa
contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia,
intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano
a sbrattare il paese, ripetendo a un dipresso le
prescrizioni e le minacce medesime del suo predecessore. Il
23 maggio poi dell'anno 1598, informato, con non poco
dispiacere dell'animo suo, che... ogni dì più in
questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali
(bravi e vagabondi), né di loro, giorno e notte, altro si
sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et
ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più
facili, confidati essi bravi d'essere aiutati dai capi e
fautori loro,... prescrive di nuovo gli stessi rimedi,
accrescendo la dose, come s'usa nelle malattie ostinate.
Ognuno dunque, conchiude poi, onninamente si guardi di
contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perché,
in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà
il rigore, e l'ira sua... essendo risoluta e determinata
che questa sia l'ultima e perentoria monizione. Non
fu però di questo parere l'Illustrissimo ed
Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de
Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello
Stato di Milano; non fu di questo parere, e per buone
ragioni. Pienamente informato della miseria in che vive
questa Città e Stato per cagione del gran numero di bravi
che in esso abbonda... e risoluto di totalmente estirpare
seme tanto pernizioso, dà fuori, il 5 decembre 1600, una
nuova grida piena anch'essa di severissime comminazioni,
con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza
speranza di remissione, siano onninamente eseguite.
Convien credere però che non ci si mettesse con tutta
quella buona voglia che sapeva impiegare nell'ordir
cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV;
giacché, per questa parte, la storia attesta come riuscisse
ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece
perder più d'una città; come riuscisse a far
congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la testa; ma,
per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de'
bravi, certo è che esso continuava a germogliare, il 22
settembre dell'anno 1612. In quel giorno
l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor
Don Giovanni de Mendozza, Marchese de la Hynojosa,
Gentiluomo etc., Governatore etc., pensò seriamente ad
estirparlo. A quest'effetto, spedì a Pandolfo e Marco
Tullio Malatesti, stampatori regii camerali, la solita
grida, corretta ed accresciuta, perché la stampassero ad
esterminio de' bravi. Ma questi vissero ancora per
ricevere, il 24 decembre dell'anno 1618, gli stessi e
più forti colpi dall'Illustrissimo ed Eccellentissimo
Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di
Feria, etc., Governatore etc. Però, non essendo essi morti
neppur di quelli, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo
Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto il
cui governo accadde la passeggiata di don Abbondio,
s'era trovato costretto a ricorreggere e ripubblicare la
solita grida contro i bravi, il giorno 5 ottobre del 1627,
cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel memorabile
avvenimento. Né fu questa l'ultima pubblicazione;
ma noi delle posteriori non crediamo dover far menzione,
come di cosa che esce dal periodo della nostra storia. Ne
accenneremo soltanto una del 13 febbraio dell'anno 1632,
nella quale l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore,
el Duque de Feria, per la seconda volta governatore, ci
avvisa che le maggiori sceleraggini procedono da quelli che
chiamano bravi. Questo basta ad assicurarci che, nel tempo
di cui noi trattiamo, c'era de' bravi tuttavia.
Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar
qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più
dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi
atti, che l'aspettato era lui. Perché, al suo apparire,
coloro s'eran guardati in viso, alzando la testa, con un
movimento dal quale si scorgeva che tutt'e due a un
tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni
s'era alzato, tirando la sua gamba sulla strada;
l'altro s'era staccato dal muro; e tutt'e due
gli s'avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il
breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo
sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli
venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille
pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i
bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a
sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame,
se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche
vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio
consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi
però s'avvicinavano, guardandolo fisso. Mise
l'indice e il medio della mano sinistra nel collare,
come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al
collo, volgeva intanto la faccia all'indietro, torcendo
insieme la bocca, e guardando con la coda dell'occhio,
fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide
nessuno. Diede un'occhiata, al di sopra del muricciolo,
ne' campi: nessuno; un'altra più modesta sulla
strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare
indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che
dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il
pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di
quell'incertezza erano allora così penosi per lui, che
non desiderava altro che d'abbreviarli. Affrettò il
passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la
faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni
sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte
dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si
fermò su due piedi. - Signor curato, - disse un di
que' due, piantandogli gli occhi in faccia. - Cosa
comanda? - rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal
libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un
leggìo. - Lei ha intenzione, - proseguì l'altro,
con l'atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo
inferiore sull'intraprendere una ribalderia, - lei ha
intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia
Mondella! - Cioè... - rispose, con voce tremolante,
don Abbondio: - cioè. Lor signori son uomini di mondo, e
sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato
non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e
poi, vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a
riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune. -
Or bene, - gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono
solenne di comando, - questo matrimonio non s'ha da
fare, né domani, né mai. - Ma, signori miei, -
replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi
vuol persuadere un impaziente, - ma, signori miei, si
degnino di mettersi ne' miei panni. Se la cosa
dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien
nulla in tasca... - Orsù, - interruppe il bravo, - se
la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in
sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più.
Uomo avvertito... lei c'intende. - Ma lor signori
son troppo giusti, troppo ragionevoli... - Ma, -
interruppe questa volta l'altro compagnone, che non
aveva parlato fin allora, - ma il matrimonio non si farà,
o... - e qui una buona bestemmia, - o chi lo farà non se ne
pentirà, perché non ne avrà tempo, e... - un'altra
bestemmia. - Zitto, zitto, - riprese il primo oratore:
- il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e
noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male,
purché abbia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo
signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce
caramente. Questo nome fu, nella mente di don Abbondio,
come, nel forte d'un temporale notturno, un lampo che
illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e
accresce il terrore. Fece, come per istinto, un
grand'inchino, e disse: - se mi sapessero
suggerire... - Oh! suggerire a lei che sa di latino! -
interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il
feroce. - A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir
parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene;
altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal
matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome
all'illustrissimo signor don Rodrigo? - Il mio
rispetto... - Si spieghi meglio! -... Disposto...
disposto sempre all'ubbidienza -. E, proferendo queste
parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un
complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle
nel significato più serio. - Benissimo, e buona notte,
messere, - disse l'un d'essi, in atto di partir col
compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe
dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto
prolungar la conversazione e le trattative. - Signori... -
cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli,
senza più dargli udienza, presero la strada dond'era
lui venuto, e s'allontanarono, cantando una canzonaccia
che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un
momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella
delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo
innanzi a stento una gamba dopo l'altra, che parevano
aggranchiate. Come stesse di dentro, s'intenderà
meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e
de' tempi in cui gli era toccato di vivere. Don
Abbondio (il lettore se n'è già avveduto) non era nato
con un cuor di leone. Ma, fin da' primi suoi anni, aveva
dovuto comprendere che la peggior condizione, a que'
tempi, era quella d'un animale senza artigli e senza
zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser
divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto
l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri
mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e
pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano;
i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta
prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non
basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del
legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure,
studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che
potesse essergli d'impedimento a proferire una condanna:
gli squarci che abbiam riportati delle gride contro i bravi,
ne sono un piccolo, ma fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in
gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e
rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che
ad attestare ampollosamente l'impotenza de' loro
autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era
principalmente d'aggiunger molte vessazioni a quelle che
i pacifici e i deboli già soffrivano da' perturbatori,
e d'accrescer le violenze e l'astuzia di questi.
L'impunità era organizzata, e aveva radici che le gride
non toccavano, o non potevano smovere. Tali eran gli asili,
tali i privilegi d'alcune classi, in parte riconosciuti
dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio,
o impugnati con vane proteste, ma sostenuti in fatto e
difesi da quelle classi, con attività d'interesse, e
con gelosia di puntiglio. Ora, quest'impunità
minacciata e insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva
naturalmente, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar
nuovi sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così
accadeva in effetto; e, all'apparire delle gride dirette
a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza
reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a far
ciò che le gride venivano a proibire. Potevan ben esse
inceppare a ogni passo, e molestare l'uomo bonario, che
fosse senza forza propria e senza protezione; perché, col
fine d'aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per
punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato
al volere arbitrario d'esecutori d'ogni genere. Ma
chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue
misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un
palazzo, dove i birri non avrebber mai osato metter piede;
chi, senz'altre precauzioni, portava una livrea che
impegnasse a difenderlo la vanità e l'interesse
d'una famiglia potente, di tutto un ceto, era libero
nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel
fracasso delle gride. Di quegli stessi ch'eran deputati
a farle eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla
parte privilegiata, alcuni ne dipendevano per clientela; gli
uni e gli altri, per educazione, per interesse, per
consuetudine, per imitazione, ne avevano abbracciate le
massime, e si sarebbero ben guardati dall'offenderle,
per amor d'un pezzo di carta attaccato sulle cantonate.
Gli uomini poi incaricati dell'esecuzione immediata,
quando fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti
come monaci, e pronti a sacrificarsi come martiri, non
avrebber però potuto venirne alla fine, inferiori
com'eran di numero a quelli che si trattava di
sottomettere, e con una gran probabilità d'essere
abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in
teoria, imponeva loro di operare. Ma, oltre di ciò, costoro
eran generalmente de' più abbietti e ribaldi soggetti
del loro tempo; l'incarico loro era tenuto a vile anche
da quelli che potevano averne terrore, e il loro titolo un
improperio. Era quindi ben naturale che costoro, in vece
d'arrischiare, anzi di gettar la vita in un'impresa
disperata, vendessero la loro inazione, o anche la loro
connivenza ai potenti, e si riservassero a esercitare la
loro esecrata autorità e la forza che pure avevano, in
quelle occasioni dove non c'era pericolo;
nell'opprimer cioè, e nel vessare gli uomini pacifici e
senza difesa. L'uomo che vuole offendere, o che
teme, ogni momento, d'essere offeso, cerca naturalmente
alleati e compagni. Quindi era, in que' tempi, portata
al massimo punto la tendenza degl'individui a tenersi
collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare
ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il
clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità,
la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni.
I mercanti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in
confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici
stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie
aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna
l'individuo trovava il vantaggio d'impiegar per sé,
a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le
forze riunite di molti. I più onesti si valevan di questo
vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne
approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle
quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per
assicurarsene l'impunità. Le forze però di queste
varie leghe eran molto disuguali; e, nelle campagne
principalmente, il nobile dovizioso e violento, con intorno
uno stuolo di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi,
per tradizione famigliare, e interessati o forzati a
riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone,
esercitava un potere, a cui difficilmente nessun'altra
frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere. Il
nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor
meno, s'era dunque accorto, prima quasi di toccar gli
anni della discrezione, d'essere, in quella società,
come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in
compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di
buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per
dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e
ai nobili fini del ministero al quale si dedicava:
procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in
una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni
più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe
qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che
fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo
sistema particolare. Don Abbondio, assorbito continuamente
ne' pensieri della propria quiete, non si curava di
que' vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno
d'adoperarsi molto, o d'arrischiarsi un poco. Il suo
sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i
contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare.
Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano
intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra il
clero e le podestà laiche, tra il militare e il civile, tra
nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate
da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se
si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due
contendenti, stava col più forte, sempre però alla
retroguardia, e procurando di far vedere all'altro
ch'egli non gli era volontariamente nemico: pareva che
gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più
forte? ch'io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando
alla larga da' prepotenti, dissimulando le loro
soverchierie passeggiere e capricciose, corrispondendo con
sommissioni a quelle che venissero da un'intenzione più
seria e più meditata, costringendo, a forza d'inchini e
di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a
fargli un sorriso, quando gl'incontrava per la strada,
il pover'uomo era riuscito a passare i sessant'anni,
senza gran burrasche. Non è però che non avesse anche
lui il suo po' di fiele in corpo; e quel continuo
esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli
altri, que' tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio,
glielo avevano esacerbato a segno che, se non avesse, di
tanto in tanto, potuto dargli un po' di sfogo, la sua
salute n'avrebbe certamente sofferto. Ma siccome
v'eran poi finalmente al mondo, e vicino a lui, persone
ch'egli conosceva ben bene per incapaci di far male,
così poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore
lungamente represso, e cavarsi anche lui la voglia
d'essere un po' fantastico, e di gridare a torto.
Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavan
come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza
alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto era almeno
almeno un imprudente; l'ammazzato era sempre stato un
uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni
contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio
sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile,
perché la ragione e il torto non si dividon mai con un
taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto
dell'una o dell'altro. Sopra tutto poi, declamava
contro que' suoi confratelli che, a loro rischio,
prendevan le parti d'un debole oppresso, contro un
soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi
gl'impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai
cani; diceva anche severamente, ch'era un mischiarsi
nelle cose profane, a danno della dignità del sacro
ministero. E contro questi predicava, sempre però a
quattr'occhi, o in un piccolissimo crocchio, con tanto
più di veemenza, quanto più essi eran conosciuti per
alieni dal risentirsi, in cosa che li toccasse
personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la
quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a
un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne' suoi
panni, non accadon mai brutti incontri. Pensino ora i
miei venticinque lettori che impressione dovesse fare
sull'animo del poveretto, quello che s'è
raccontato. Lo spavento di que' visacci e di quelle
parolacce, la minaccia d'un signore noto per non
minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch'era
costato tant'anni di studio e di pazienza, sconcertato
in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come
uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente
nel capo basso di don Abbondio. «Se Renzo si potesse
mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle ragioni;
e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e,
anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma
se uno vuol contraddirgli... ih! E poi, e poi, perduto
dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che,
per non saper che fare, s'innamorano, voglion maritarsi,
e non pensano ad altro; non si fanno carico de' travagli
in che mettono un povero galantuomo. Oh povero me! vedete se
quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia
strada, e prenderla con me! Che c'entro io? Son io che
voglio maritarmi? Perché non son andati piùttosto a
parlare... Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le
cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo
l'occasione. Se avessi pensato di suggerir loro che
andassero a portar la loro imbasciata...» Ma, a questo
punto, s'accorse che il pentirsi di non essere stato
consigliere e cooperatore dell'iniquità era cosa troppo
iniqua; e rivolse tutta la stizza de' suoi pensieri
contro quell'altro che veniva così a togliergli la sua
pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama, né
aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il
petto col mento, e la terra con la punta del suo cappello,
quelle poche volte che l'aveva incontrato per la strada.
Gli era occorso di difendere, in più
d'un'occasione, la riputazione di quel signore,
contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e alzando gli
occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto: aveva detto
cento volte ch'era un rispettabile cavaliere. Ma, in
quel momento gli diede in cuor suo tutti que' titoli che
non aveva mai udito applicargli da altri, senza interrompere
in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi
pensieri, alla porta di casa sua, ch'era in fondo del
paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già
teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e,
ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito:
- Perpetua! Perpetua! -, avviandosi pure verso il salotto,
dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la
tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se
n'avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e
fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo
l'occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le
fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le
proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti,
da che aveva passata l'età sinodale dei quaranta,
rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le
si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai
trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue
amiche. - Vengo, - rispose , mettendo sul tavolino, al
luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don
Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata
la soglia del salotto, ch'egli v'entrò, con un
passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con un
viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati
gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista
che gli era accaduto qualche cosa di straordinario
davvero. - Misericordia! cos'ha, signor
padrone? - Niente, niente, - rispose don Abbondio,
lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone. -
Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto
com'è? Qualche gran caso è avvenuto. - Oh, per
amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa
che non posso dire. - Che non può dir neppure a me?
Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un
parere?... - Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro:
datemi un bicchiere del mio vino. - E lei mi vorrà
sostenere che non ha niente! - disse Perpetua, empiendo il
bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse
darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto
aspettare. - Date qui, date qui, - disse don Abbondio,
prendendole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e
votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina. -
Vuol dunque ch'io sia costretta di domandar qua e là
cosa sia accaduto al mio padrone? - disse Perpetua, ritta
dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le
gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse
succhiargli dagli occhi il segreto. - Per amor del
cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va...
ne va la vita! - La vita! - La vita. - Lei sa
bene che, ogni volta che m'ha detto qualche cosa
sinceramente, in confidenza, io non ho mai... - Brava!
come quando... Perpetua s'avvide d'aver toccato
un tasto falso; onde, cambiando subito il tono, - signor
padrone, - disse, con voce commossa e da commovere, - io le
sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è
per premura, perché vorrei poterla soccorrere, darle un
buon parere, sollevarle l'animo... Il fatto sta che
don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo
doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo;
onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e
più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più
d'una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con
molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il
miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del
mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più
solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome,
si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran
sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di
supplica, e dicendo: - per amor del cielo! - Delle sue!
- esclamò Perpetua. - Oh che birbone! oh che soverchiatore!
oh che uomo senza timor di Dio! - Volete tacere? o
volete rovinarmi del tutto? - Oh! siam qui soli che
nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone?
- Oh vedete, - disse don Abbondio, con voce stizzosa: -
vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi
come farò, come farò; quasi fosse lei nell'impiccio, e
toccasse a me di levarnela. - Ma! io l'avrei bene
il mio povero parere da darle; ma poi... - Ma poi,
sentiamo. - Il mio parere sarebbe che, siccome tutti
dicono che il nostro arcivescovo è un sant'uomo, e un
uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando puç
fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un
curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse
una bella lettera, per informarlo come qualmente... -
Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a
un pover'uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata
nella schiena, Dio liberi! l'arcivescovo me la
leverebbe? - Eh! le schioppettate non si dànno via
come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte
le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa
mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e,
appunto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam
ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a... -
Volete tacere? - Io taccio subito; ma è però certo
che, quando il mondo s'accorge che uno, sempre, in ogni
incontro, è pronto a calar le... - Volete tacere?
E' tempo ora di dir codeste baggianate? - Basta: ci
penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male
da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone. - Ci
penserò io, - rispose, brontolando, don Abbondio: - sicuro;
io ci penserò, io ci ho da pensare - E s'alzò,
continuando: - non voglio prender niente; niente: ho altra
voglia: lo so anch'io che tocca a pensarci a me. Ma! la
doveva accader per l'appunto a me. - Mandi almen
giù quest'altro gocciolo, - disse Perpetua, mescendo. -
Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco. - Eh!
ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così dicendo
prese il lume, e, brontolando sempre: - una piccola
bagattella! a un galantuomo par mio! e domani
com'andrà? - e altre simili lamentazioni, s'avviò
per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò
indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse,
con tono lento e solenne : - per amor del cielo! -, e
disparve.
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