giggi 28 gennaio 2008 0:00
Alessandro Manzoni I Promessi Sposi
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-------------------- Capitolo I
Quel ramo del lago di Como , che volge a mezzogiorno, tra
due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi,
a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien,
quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e
figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia
costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge
le due rive, par che renda ancor più sensibile
all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in
cui il lago cessa, e l'Adda rincomincia, per ripigliar
poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo,
lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi
e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre
grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui,
l'uno detto di san Martino, l'altro, con voce
lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che
in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi,
al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di
su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo
discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e
vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di
forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un
pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in
valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l'ossatura
de' due monti, e il lavoro dell'acque. Il lembo
estremo, tagliato dalle foci de' torrenti, è quasi
tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse
di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che
si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di
quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco
discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte
a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran
borgo al giorno d'oggi, e che s'incammina a diventar
città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a
raccontare, que1 borgo, già considerabile, era anche un
castello, e aveva perciò l'onore d'alloggiare un
comandante, e il vantaggio di possedere una stabile
guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia
alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo
in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul
finir dell'estate, non mancavan mai di spandersi nelle
vigne, per diradar l'uve, e alleggerire a' contadini
le fatiche della vendemmia. Dall'una all'altra di
quelle terre, dall'alture alla riva, da un poggio
all'altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e
stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate,
sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non
iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte;
ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista
spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e
sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian
più o meno della vasta scena circostante, e secondo che
questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o
sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una
lunga distesa di que1 vasto e variato specchio
dell'acqua; di qua lago, chiuso all'estremità o
piùttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di
montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti
che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che
l'acqua riflette capovolti, co' paesetti posti sulle
rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora,
che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra'
monti che l'accompagnano, degradando via via, e
perdendosi quasi anch'essi nell'orizzonte. Il luogo
stesso da dove contemplate que' vari spettacoli, vi fa
spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le
falde, vi svolge, al di sopra, d'intorno, le sue cime e
le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo,
aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v'era
sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che
poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l'ameno,
il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il
selvaggio, e orna vie più il magnifico dell'altre
vedute. Per una di queste stradicciole ,
tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera
del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio,
curato d'una delle terre accennate di sopra: il nome di
questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel
manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva
tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e
l'altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per
segno, l'indice della mano destra, e, messa poi questa
nell'altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino,
guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i
ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il
viso, e, girati oziosamente gli occhi all'intorno, li
fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole
già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si
dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e
inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario,
e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della
stradetta, dov'era solito d'alzar sempre gli occhi
dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel
giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un
sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia
d'un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e
menava alla cura: l'altra scendeva nella valle fino a un
torrente; e da questa parte il muro non arrivava che
all'anche del passeggiero. I muri interni delle due
viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un
tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe,
serpeggianti, che finivano in punta, e che,
nell'intenzion dell'artista, e agli occhi degli
abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con
le fiamme, cert'altre figure da non potersi descrivere,
che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a
color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche
scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e
dirizzando, com'era solito, lo sguardo al tabernacolo,
vide una cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe
voluto vedere. Due uomini stavano , l'uno dirimpetto
all'altro, al confluente, per dir così, delle due
viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso,
con una gamba spenzolata al di fuori, e l'altro piede
posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi,
appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto.
L'abito, il portamento, e quello che, dal luogo
ov'era giunto il curato, si poteva distinguer
dell'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor
condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella
verde, che cadeva sull'omero sinistro, terminata in una
gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme
ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una
cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole:
un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come
una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori
d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone,
con una gran guardia traforata a lamine d'ottone,
congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista
si davano a conoscere per individui della specie de'
bravi. Questa specie, ora del tutto perduta,
era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica.
Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che
potranno darne una bastante de' suoi caratteri
principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua
dura e rigogliosa vitalità. Fino
dall'otto aprile dell'anno 1583, l'Illustrissimo
ed Eccellentissimo signor don Carlo d'Aragon, Principe
di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d'Avola,
Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di
Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua
Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della
intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa città
di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un
bando contro di essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro
essere compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e
vagabondi à i quali, essendo forestieri o del paese, non
hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno... ma,
senza salario, o pur con esso, s'appoggiano a qualche
cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante... per fargli
spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per
tendere insidie ad altri... A tutti costoro ordina che, nel
termine di giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima
la galera a' renitenti, e dà a tutti gli ufiziali della
giustizia le più stranamente ampie e indefinite facoltà,
per l'esecuzione dell'ordine. Ma, nell'anno
seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto signore, che
questa Città è tuttavia piena di detti bravi... tornati a
vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume
loro, né scemato il numero, dà fuori un'altra grida,
ancor più vigorosa e notabile, nella quale, tra l'altre
ordinazioni, prescrive: Che qualsivoglia
persona, così di questa Città, come forestiera, che per
due testimonj consterà esser tenuto, e comunemente riputato
per bravo, et aver tal nome, ancorché non si verifichi aver
fatto delitto alcuno... per questa sola riputazione di
bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da
ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per
processo informativo... et ancorché non confessi delitto
alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio,
per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra. Tutto
ciò, e il di più che si tralascia, perché Sua Eccellenza
è risoluta di voler essere obbedita da ognuno.
All'udir parole d'un tanto signore, così gagliarde
e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran
voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i
bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza
d'un signore non meno autorevole, né meno dotato di
nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. E' questi
l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez
de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di
Sua Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e
Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli
sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano,
etc. Il 5 giugno dell'anno 1593, pienamente informato
anche lui di quanto danno e rovine sieno... i bravi e
vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa
contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia,
intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano
a sbrattare il paese, ripetendo a un dipresso le
prescrizioni e le minacce medesime del suo predecessore. Il
23 maggio poi dell'anno 1598, informato, con non poco
dispiacere dell'animo suo, che... ogni dì più in
questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali
(bravi e vagabondi), né di loro, giorno e notte, altro si
sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et
ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più
facili, confidati essi bravi d'essere aiutati dai capi e
fautori loro,... prescrive di nuovo gli stessi rimedi,
accrescendo la dose, come s'usa nelle malattie ostinate.
Ognuno dunque, conchiude poi, onninamente si guardi di
contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perché,
in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà
il rigore, e l'ira sua... essendo risoluta e determinata
che questa sia l'ultima e perentoria monizione.
Non fu però di questo parere l'Illustrissimo ed
Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de
Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello
Stato di Milano; non fu di questo parere, e per buone
ragioni. Pienamente informato della miseria in che vive
questa Città e Stato per cagione del gran numero di bravi
che in esso abbonda... e risoluto di totalmente estirpare
seme tanto pernizioso, dà fuori, il 5 decembre 1600, una
nuova grida piena anch'essa di severissime comminazioni,
con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza
speranza di remissione, siano onninamente eseguite.
Convien credere però che non ci si mettesse con tutta
quella buona voglia che sapeva impiegare nell'ordir
cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV;
giacché, per questa parte, la storia attesta come riuscisse
ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece
perder più d'una città; come riuscisse a far
congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la testa; ma,
per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de'
bravi, certo è che esso continuava a germogliare, il 22
settembre dell'anno 1612. In quel giorno
l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor
Don Giovanni de Mendozza, Marchese de la Hynojosa,
Gentiluomo etc., Governatore etc., pensò seriamente ad
estirparlo. A quest'effetto, spedì a Pandolfo e Marco
Tullio Malatesti, stampatori regii camerali, la solita
grida, corretta ed accresciuta, perché la stampassero ad
esterminio de' bravi. Ma questi vissero ancora per
ricevere, il 24 decembre dell'anno 1618, gli stessi e
più forti colpi dall'Illustrissimo ed Eccellentissimo
Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di
Feria, etc., Governatore etc. Però, non essendo essi morti
neppur di quelli, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo
Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto il
cui governo accadde la passeggiata di don Abbondio,
s'era trovato costretto a ricorreggere e ripubblicare la
solita grida contro i bravi, il giorno 5 ottobre del 1627,
cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel memorabile
avvenimento. Né fu questa l'ultima
pubblicazione; ma noi delle posteriori non crediamo dover
far menzione, come di cosa che esce dal periodo della nostra
storia. Ne accenneremo soltanto una del 13 febbraio
dell'anno 1632, nella quale l'Illustrissimo ed
Eccellentissimo Signore, el Duque de Feria, per la seconda
volta governatore, ci avvisa che le maggiori sceleraggini
procedono da quelli che chiamano bravi. Questo basta ad
assicurarci che, nel tempo di cui noi trattiamo, c'era
de' bravi tuttavia. Che i due descritti di
sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo
evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il
dover accorgersi, per certi atti, che l'aspettato era
lui. Perché, al suo apparire, coloro s'eran guardati in
viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si
scorgeva che tutt'e due a un tratto avevan detto: è
lui; quello che stava a cavalcioni s'era alzato, tirando
la sua gamba sulla strada; l'altro s'era staccato
dal muro; e tutt'e due gli s'avviavano incontro.
Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se
leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di
coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a
un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a se
stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di
strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no.
Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche
potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel
turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo
rassicurava alquanto: i bravi però s'avvicinavano,
guardandolo fisso. Mise l'indice e il medio della mano
sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le
due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia
all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con
la coda dell'occhio, fin dove poteva, se qualcheduno
arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un'occhiata, al di
sopra del muricciolo, ne' campi: nessuno; un'altra
più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i
bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a
gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non
potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i
momenti di quell'incertezza erano allora così penosi
per lui, che non desiderava altro che d'abbreviarli.
Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta,
compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che
poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si
trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci
siamo; e si fermò su due piedi. - Signor
curato, - disse un di que' due, piantandogli gli occhi
in faccia. - Cosa comanda? - rispose subito
don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò
spalancato nelle mani, come sur un leggìo. -
Lei ha intenzione, - proseguì l'altro, con l'atto
minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore
sull'intraprendere una ribalderia, - lei ha intenzione
di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!
- Cioè... - rispose, con voce tremolante, don
Abbondio: - cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno
benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non
c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi,
vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a riscotere;
e noi... noi siamo i servitori del comune. -
Or bene, - gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono
solenne di comando, - questo matrimonio non s'ha da
fare, né domani, né mai. - Ma, signori miei,
- replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di
chi vuol persuadere un impaziente, - ma, signori miei, si
degnino di mettersi ne' miei panni. Se la cosa
dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien
nulla in tasca... - Orsù, - interruppe il
bravo, - se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci
metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam
saperne di più. Uomo avvertito... lei c'intende.
- Ma lor signori son troppo giusti, troppo
ragionevoli... - Ma, - interruppe questa volta
l'altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, -
ma il matrimonio non si farà, o... - e qui una buona
bestemmia, - o chi lo farà non se ne pentirà, perché non
ne avrà tempo, e... - un'altra bestemmia.
- Zitto, zitto, - riprese il primo oratore: - il signor
curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam
galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia
giudizio. Signor curato, l'illustrissimo signor don
Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.
Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte
d'un temporale notturno, un lampo che illumina
momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il
terrore. Fece, come per istinto, un grand'inchino, e
disse: - se mi sapessero suggerire... - Oh!
suggerire a lei che sa di latino! - interruppe ancora il
bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. - A lei
tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo
avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm...
sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che
vuol che si dica in suo nome all'illustrissimo signor
don Rodrigo? - Il mio rispetto...
- Si spieghi meglio! -... Disposto...
disposto sempre all'ubbidienza -. E, proferendo queste
parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un
complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle
nel significato più serio. - Benissimo, e
buona notte, messere, - disse l'un d'essi, in atto
di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti
prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe
voluto prolungar la conversazione e le trattative. -
Signori... - cominciò, chiudendo il libro con le due mani;
ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada
dond'era lui venuto, e s'allontanarono, cantando una
canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don
Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato;
poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa
sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l'altra,
che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro,
s'intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del
suo naturale, e de' tempi in cui gli era toccato di
vivere. Don Abbondio (il lettore se n'è
già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin
da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la
peggior condizione, a que' tempi, era quella d'un
animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si
sentisse inclinazione d'esser divorato. La forza legale
non proteggeva in alcun conto l'uomo tranquillo,
inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura
altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le
violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano
enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le
pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili,
quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di
cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare
il giudice da ogni cosa che potesse essergli
d'impedimento a proferire una condanna: gli squarci che
abbiam riportati delle gride contro i bravi, ne sono un
piccolo, ma fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte
a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di
governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare
ampollosamente l'impotenza de' loro autori; o, se
producevan qualche effetto immediato, era principalmente
d'aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i
deboli già soffrivano da' perturbatori, e
d'accrescer le violenze e l'astuzia di questi.
L'impunità era organizzata, e aveva radici che le gride
non toccavano, o non potevano smovere. Tali eran gli asili,
tali i privilegi d'alcune classi, in parte riconosciuti
dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio,
o impugnati con vane proteste, ma sostenuti in fatto e
difesi da quelle classi, con attività d'interesse, e
con gelosia di puntiglio. Ora, quest'impunità
minacciata e insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva
naturalmente, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar
nuovi sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così
accadeva in effetto; e, all'apparire delle gride dirette
a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza
reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a far
ciò che le gride venivano a proibire. Potevan ben esse
inceppare a ogni passo, e molestare l'uomo bonario, che
fosse senza forza propria e senza protezione; perché, col
fine d'aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per
punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato
al volere arbitrario d'esecutori d'ogni genere. Ma
chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue
misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un
palazzo, dove i birri non avrebber mai osato metter piede;
chi, senz'altre precauzioni, portava una livrea che
impegnasse a difenderlo la vanità e l'interesse
d'una famiglia potente, di tutto un ceto, era libero
nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel
fracasso delle gride. Di quegli stessi ch'eran deputati
a farle eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla
parte privilegiata, alcuni ne dipendevano per clientela; gli
uni e gli altri, per educazione, per interesse, per
consuetudine, per imitazione, ne avevano abbracciate le
massime, e si sarebbero ben guardati dall'offenderle,
per amor d'un pezzo di carta attaccato sulle cantonate.
Gli uomini poi incaricati dell'esecuzione immediata,
quando fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti
come monaci, e pronti a sacrificarsi come martiri, non
avrebber però potuto venirne alla fine, inferiori
com'eran di numero a quelli che si trattava di
sottomettere, e con una gran probabilità d'essere
abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in
teoria, imponeva loro di operare. Ma, oltre di ciò, costoro
eran generalmente de' più abbietti e ribaldi soggetti
del loro tempo; l'incarico loro era tenuto a vile anche
da quelli che potevano averne terrore, e il loro titolo un
improperio. Era quindi ben naturale che costoro, in vece
d'arrischiare, anzi di gettar la vita in un'impresa
disperata, vendessero la loro inazione, o anche la loro
connivenza ai potenti, e si riservassero a esercitare la
loro esecrata autorità e la forza che pure avevano, in
quelle occasioni dove non c'era pericolo;
nell'opprimer cioè, e nel vessare gli uomini pacifici e
senza difesa. L'uomo che vuole offendere,
o che teme, ogni momento, d'essere offeso, cerca
naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que'
tempi, portata al massimo punto la tendenza
degl'individui a tenersi collegati in classi, a formarne
delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di
quella a cui apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad
estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il
militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano
arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti
formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna
di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e
propria; in ognuna l'individuo trovava il vantaggio
d'impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e
della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più
onesti si valevan di questo vantaggio a difesa soltanto; gli
astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a
termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non
sarebber bastati, e per assicurarsene l'impunità. Le
forze però di queste varie leghe eran molto disuguali; e,
nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso e
violento, con intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione
di contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e
interessati o forzati a riguardarsi quasi come sudditi e
soldati del padrone, esercitava un potere, a cui
difficilmente nessun'altra frazione di lega avrebbe ivi
potuto resistere. Il nostro Abbondio non
nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque
accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione,
d'essere, in quella società, come un vaso di terra
cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di
ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai
parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva
gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del
ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere
con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte,
gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una
tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un
individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno:
nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare.
Don Abbondio, assorbito continuamente ne' pensieri della
propria quiete, non si curava di que' vantaggi, per
ottenere i quali facesse bisogno d'adoperarsi molto, o
d'arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva
principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel
cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità
disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui,
dalle contese, allora frequentissime, tra il clero e le
podestà laiche, tra il militare e il civile, tra nobili e
nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate da una
parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si
trovava assolutamente costretto a prender parte tra due
contendenti, stava col più forte, sempre però alla
retroguardia, e procurando di far vedere all'altro
ch'egli non gli era volontariamente nemico: pareva che
gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più
forte? ch'io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando
alla larga da' prepotenti, dissimulando le loro
soverchierie passeggiere e capricciose, corrispondendo con
sommissioni a quelle che venissero da un'intenzione più
seria e più meditata, costringendo, a forza d'inchini e
di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a
fargli un sorriso, quando gl'incontrava per la strada,
il pover'uomo era riuscito a passare i sessant'anni,
senza gran burrasche. Non è però che non
avesse anche lui il suo po' di fiele in corpo; e quel
continuo esercitar la pazienza, quel dar così spesso
ragione agli altri, que' tanti bocconi amari inghiottiti
in silenzio, glielo avevano esacerbato a segno che, se non
avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po' di
sfogo, la sua salute n'avrebbe certamente sofferto. Ma
siccome v'eran poi finalmente al mondo, e vicino a lui,
persone ch'egli conosceva ben bene per incapaci di far
male, così poteva con quelle sfogare qualche volta il mal
umore lungamente represso, e cavarsi anche lui la voglia
d'essere un po' fantastico, e di gridare a torto.
Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavan
come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza
alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto era almeno
almeno un imprudente; l'ammazzato era sempre stato un
uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni
contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio
sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile,
perché la ragione e il torto non si dividon mai con un
taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto
dell'una o dell'altro. Sopra tutto poi, declamava
contro que' suoi confratelli che, a loro rischio,
prendevan le parti d'un debole oppresso, contro un
soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi
gl'impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai
cani; diceva anche severamente, ch'era un mischiarsi
nelle cose profane, a danno della dignità del sacro
ministero. E contro questi predicava, sempre però a
quattr'occhi, o in un piccolissimo crocchio, con tanto
più di veemenza, quanto più essi eran conosciuti per
alieni dal risentirsi, in cosa che li toccasse
personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la
quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a
un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne' suoi
panni, non accadon mai brutti incontri.
Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione
dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che
s'è raccontato. Lo spavento di que' visacci e di
quelle parolacce, la minaccia d'un signore noto per non
minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch'era
costato tant'anni di studio e di pazienza, sconcertato
in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come
uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente
nel capo basso di don Abbondio. «Se Renzo si potesse
mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle ragioni;
e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e,
anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma
se uno vuol contraddirgli... ih! E poi, e poi, perduto
dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che,
per non saper che fare, s'innamorano, voglion maritarsi,
e non pensano ad altro; non si fanno carico de' travagli
in che mettono un povero galantuomo. Oh povero me! vedete se
quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia
strada, e prenderla con me! Che c'entro io? Son io che
voglio maritarmi? Perché non son andati piùttosto a
parlare... Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le
cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo
l'occasione. Se avessi pensato di suggerir loro che
andassero a portar la loro imbasciata...» Ma, a questo
punto, s'accorse che il pentirsi di non essere stato
consigliere e cooperatore dell'iniquità era cosa troppo
iniqua; e rivolse tutta la stizza de' suoi pensieri
contro quell'altro che veniva così a togliergli la sua
pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama, né
aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il
petto col mento, e la terra con la punta del suo cappello,
quelle poche volte che l'aveva incontrato per la strada.
Gli era occorso di difendere, in più
d'un'occasione, la riputazione di quel signore,
contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e alzando gli
occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto: aveva detto
cento volte ch'era un rispettabile cavaliere. Ma, in
quel momento gli diede in cuor suo tutti que' titoli che
non aveva mai udito applicargli da altri, senza interrompere
in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi
pensieri, alla porta di casa sua, ch'era in fondo del
paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già
teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e,
ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito:
- Perpetua! Perpetua! -, avviandosi pure verso il salotto,
dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la
tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se
n'avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e
fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo
l'occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le
fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le
proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti,
da che aveva passata l'età sinodale dei quaranta,
rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le
si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai
trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue
amiche. - Vengo, - rispose , mettendo sul
tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto
di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor
toccata la soglia del salotto, ch'egli v'entrò, con
un passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con
un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen
bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a
prima vista che gli era accaduto qualche cosa di
straordinario davvero. - Misericordia!
cos'ha, signor padrone? - Niente, niente,
- rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul
suo seggiolone. - Come, niente? La vuol dare
ad intendere a me? così brutto com'è? Qualche gran
caso è avvenuto. - Oh, per amor del cielo!
Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso
dire. - Che non può dir neppure a me? Chi si
prenderà cura della sua salute? Chi le darà un
parere?... - Ohimè! tacete, e non
apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino.
- E lei mi vorrà sostenere che non ha niente! -
disse Perpetua, empiendo il bicchiere, e tenendolo poi in
mano, come se non volesse darlo che in premio della
confidenza che si faceva tanto aspettare. -
Date qui, date qui, - disse don Abbondio, prendendole il
bicchiere, con la mano non ben ferma, e votandolo poi in
fretta, come se fosse una medicina. - Vuol
dunque ch'io sia costretta di domandar qua e là cosa
sia accaduto al mio padrone? - disse Perpetua, ritta dinanzi
a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita
appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse
succhiargli dagli occhi il segreto. - Per amor
del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne
va... ne va la vita! - La vita!
- La vita. - Lei sa bene che, ogni volta che
m'ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io
non ho mai... - Brava! come quando...
Perpetua s'avvide d'aver toccato un tasto
falso; onde, cambiando subito il tono, - signor padrone, -
disse, con voce commossa e da commovere, - io le sono sempre
stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura,
perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere,
sollevarle l'animo... Il fatto sta che don
Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo
doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo;
onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e
più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più
d'una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con
molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il
miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del
mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più
solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome,
si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran
sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di
supplica, e dicendo: - per amor del cielo! -
Delle sue! - esclamò Perpetua. - Oh che birbone! oh che
soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio!
- Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?
- Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà,
povero signor padrone? - Oh vedete, - disse
don Abbondio, con voce stizzosa: - vedete che bei pareri mi
sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò;
quasi fosse lei nell'impiccio, e toccasse a me di
levarnela. - Ma! io l'avrei bene il mio
povero parere da darle; ma poi... - Ma poi,
sentiamo. - Il mio parere sarebbe che, siccome
tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant'uomo,
e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando
puç fare star a dovere un di questi prepotenti, per
sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei
gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come
qualmente... - Volete tacere? volete tacere?
Son pareri codesti da dare a un pover'uomo? Quando mi
fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi!
l'arcivescovo me la leverebbe? - Eh! le
schioppettate non si dànno via come confetti: e guai se
questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E
io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi
stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché lei non
vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti
vengono, con licenza, a... - Volete
tacere? - Io taccio subito; ma è però certo
che, quando il mondo s'accorge che uno, sempre, in ogni
incontro, è pronto a calar le... - Volete
tacere? E' tempo ora di dir codeste baggianate?
- Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non
cominci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un
boccone. - Ci penserò io, - rispose,
brontolando, don Abbondio: - sicuro; io ci penserò, io ci
ho da pensare - E s'alzò, continuando: - non voglio
prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch'io
che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per
l'appunto a me. - Mandi almen giù
quest'altro gocciolo, - disse Perpetua, mescendo. - Lei
sa che questo le rimette sempre lo stomaco. -
Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così
dicendo prese il lume, e, brontolando sempre: - una piccola
bagattella! a un galantuomo par mio! e domani
com'andrà? - e altre simili lamentazioni, s'avviò
per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò
indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse,
con tono lento e solenne : - per amor del cielo! -, e
disparve. Vai al commento del
Capitolo I
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