Fabio 10 giugno 2005 0:00
Nel caso improbabile Ritorno al futuro.
Esperimento mentale su un changeover da euro a lira. di
Alessandro Fugnoli (Abaxbank) Da
Il Rosso e il nero, settimanale di strategia di Abaxbank
di giovedì 9 giugno 2005 In the unlikely
event, dice la voce registrata Alitalia con molto pudore, le
maschere per l’ossigeno si mettono così e le uscite di
sicurezza sono queste. L’evento, in effetti, è davvero
rarissimo, ma vale lo stesso la pena prestare un minimo di
attenzione alle indicazioni per l’emergenza. Il ritorno
alla lira è probabile come un incidente aereo, cioè
pochissimo, ma non per questo è razionale considerarlo
assurdo. Assumere l’aria infastidita al solo pensiero e
fare gli altezzosi può avere senso in termini di
comunicazione (per troncare sul nascere le attese e impedire
che, in prospettiva, si autorealizzino), ma chi gestisce
soldi dovrà dedicare al problema almeno cinque minuti al
mese e fare ogni tanto uno stress test dei portafogli, se
non altro come esercitazione. Pur essendo di
cuore contrari all’idea, onestà intellettuale impone di
non considerarla a priori campata per aria. Il
Fondo Monetario, che negli anni Novanta aveva spesso
promosso o accettato, per i suoi pazienti più gravi, il peg
con il dollaro, il currency board all’argentina o
addirittura la dollarizzazione integrale, da qualche anno ha
cambiato radicalmente opinione e predica la fluttuazione
sporca (cioè controllata) del cambio. La fluttuazione
controllata è particolarmente indicata per i paesi
monoprodotto (tipicamente i produttori di materie prime).
Quando l’unico bene che si produce e che si esporta scende
di prezzo sui mercati mondiali non ha senso impiccarsi a un
cambio fisso. Nell’Ottocento, ai tempi del cambio fisso
con l’oro, lo si faceva, ma allora si usavano modi spicci.
In caso di crisi la paga settimanale veniva decurtata anche
del 25 o del 50 per cento, l’orario veniva ridotto senza
cassa integrazione e si licenziava in tronco. Parallelamente
scendeva il valore di tutti gli asset finanziari e reali.
Qualche banca saltava, molte obbligazioni diventavano carta
straccia, ma alla fine la parità del cambio era salva e
l’economia ripartiva rapidamente. Quando si perde
competitività o si svaluta in termini nominali, o si
svaluta in termini reali (cioè si fa scendere il livello
dei salari e dei prezzi) o ci si fa sfilare da sotto i piedi
tutto l’apparato produttivo. L’alternativa soft
(augurabile) è quella di fare crescere i salari meno di
quelli dei paesi concorrenti e di migliorare la
produttività deregolando. La deregulation può essere
temporaneamente accompagnata da dazi protettivi, ma solo a
patto che si deregoli sul serio e che i dazi scendano
gradualmente (ma entro un tempo prefissato) a zero.
Un’altra alternativa, più tecnica che sostanziale,
è quella di fornire incentivi all’export finanziati con
dazi sull’import. E’ una specie di penultima spiaggia.
Il sistema di relazioni internazionali in cui è immersa
l’Italia rende molto difficile l’adozione di politiche
unilateralmente protezionistiche, così come rende
improbabile una svalutazione. In caso di necessità,
tuttavia, è legittimo aspettarsi che i partner, nel loro
stesso interesse, chiudano un occhio su alcune pratiche
borderline, come sono tipicamente l’adozione di standard
di qualità sull’import (un pollo cinese ieri ha
starnutito, quindi per precauzione blocchiamo per sei mesi
tutto il pollame asiatico) o le sovvenzioni pubbliche in
stile Alitalia. I partner potrebbero anche chiudere un
occhio (e magari adottarle anche loro) su politiche
tributarie competitive come la flat tax, adottata da quasi
tutto l’est europeo con enorme successo (il problema
comunque non si pone, perché in Italia non la vuole quasi
nessuno). Quanto alla svalutazione vera e propria
(previo nuovo changeover), è tecnicamente possibilissima,
anche se molto laboriosa. L’Ecuador, attualmente
dollarizzato, sta probabilmente preparando la reintroduzione
del sucre, accompagnata forse, al primo cenno di debolezza
del petrolio, da un default sul debito. In genere misure di
questo tipo vengono smentite fino a un minuto prima di
essere prese. Sottoporle a referendum (ammesso e non
concesso che la Corte Costituzionale lo lasciasse passare)
vorrebbe dire dollarizzare di fatto istantaneamente
l’economia ancora prima della lirizzazione. Qualunque
possessore italiano di euro, nel dubbio, venderebbe i titoli
della Repubblica (o di qualsiasi debitore residente),
chiuderebbe il conto in euro e ne aprirebbe uno in dollari,
sterline o franchi svizzeri. Si formerebbero poi a Chiasso
code più lunghe di quelle di domenica scorsa sulla Bologna
Milano. Le transazioni interne tra privati (ad esempio la
compravendita di una casa o l’erogazione di un prestito)
si dollarizzerebbero anch’esse. Il changeover
comporterebbe la lirizzazione del debito del Tesoro verso i
residenti e quella dell’attivo e del passivo delle banche.
Chi aveva il mutuo in euro se lo ritroverebbe in lire, chi
aveva i Bot o il conto in euro se li troverebbe in lire. I
titoli della Repubblica detenuti da non residenti,
presumibilmente, verrebbero invece pagati in euro. Se così
non fosse (e così non fu in Argentina) le agenzie di rating
declasserebbero l’Italia non a B, non a C, ma a SD,
selective default. L’SD, in teoria, potrebbe essere
applicato anche al debito verso i residenti. Come
corollario, molti investitori istituzionali esteri sarebbero
costretti a disfarsi dei titoli italiani, che verrebbero
invece acquistati, a prezzi evidentemente scontati, dai
fondi high yield. Il changeover potrebbe avvenire al cambio
di 1936.27 oppure a qualsiasi altro livello arbitrario.
L’Argentina è riuscita a fare un sacco di pasticci anche
su questo, decidendo cambi diversi a seconda che si
trattasse di pesos, dollari interni o mutui. Ne ha ricavato
tre anni di tribunali ingolfati da cause e un collasso del
sistema bancario. Il cambio a 1936.27 apparirebbe
politicamente più acettabile, ma il giorno dopo la banca
centrale inizierebbe a stampare moneta per portare il cambio
al livello desiderato. Più che di livello desiderato,
tuttavia, bisognerebbe parlare di livello concordato con i
partner. Non solo i partner europei, ma anche gli Stati
Uniti e l’Asia. L’Italia, infatti, non
sarebbe un caso così grave o minuscolo da essere lasciata
libera di decidere in libertà completa. Tutti metterebbero
delle condizioni che, se non accettate, comporterebbero
sanzioni. Il negoziato con i partner europei sarebbe molto
duro. Lo fu del resto anche quando si trattò di stabilire
il livello del primo changeover. La Germania voleva una
parità lira marco a 910, l’Italia spuntò 990 e allora
apparve un buon compromesso. Non lo fu, ma alla Cina in quel
periodo pensavano ancora in pochi. Oggi Germania e Francia
potrebbero concedere con estrema riluttanza un 10-15 per
cento. Fosse per gli Stati Uniti, impegnati a fare
rivalutare contro dollaro tutti quanti, anche meno. In
cambio di una boccata di ossigeno per i nostri esportatori,
non molto grande, avremmo immediatamente un aumento del
prezzo in lire di tutto l’import, tra cui petrolio e
derivati. L’aspetto più delicato, tuttavia, sarebbe
quello dei tassi reali. Ora è vero che viviamo
in un mondo di tassi bassi e di credit spread
ultracompressi. Un mondo come questo, affamato di carry e
ben lieto di comperare valute locali esotiche, comprerebbe
anche i nuovi Bot. Anche un mondo come questo, tuttavia, è
un minimo selettivo e compra valute ritenute convergenti
verso il dollaro o verso l’euro (come il fiorino
ungherese). Le pochissime valute divergenti (a dire il vero
viene in mente solo il bolivar venezuelano) non sono oggetto
di interesse. E la lira, naturalmente, verrebbe vista da
subito come divergente. Il vero test arriverebbe
comunque in caso di rialzo dei tassi reali nel mondo, che
sarebbe accompagnato da un aumento dei credit spread e
rappresenterebbe quindi per l’Italia un doppio colpo. In
quel caso la lira dovrebbe svalutare molto di più del 10-15
per cento iniziale, spingendosi verso l’overshooting. Solo
in quel momento i titoli italiani sarebbero da comperare,
non prima. Un ragionamento che può fare un investitore real
money è che i tassi reali alti sono brutti per chi li paga
ma sono belli per chi li riceve. Dietro alla nostalgia per
la lira c’è anche quella per quei grassi Cct con
rendimenti reali del tre o del quattro per cento, ben
diversi dal rendimento negativo di oggi. Il problema è che
i tassi reali molto alti sono possibili in due casi. Il
primo è quando si converge. Un paese decide che ne ha
abbastanza dell’inflazione, alza i tassi nominali alle
stelle, attira capitali dall’estero e accetta un cambio
più alto. In quei casi chi investe in titoli lunghi in
valuta locale ha un triplo beneficio. Gli sale il cambio, ha
un carry favoloso e ha un capital gain sui bond.
L’Italia però, in ipotesi, diverge. Esempi di divergenza
sono l’Italia stessa degli anni Settanta e parte degli
Ottanta e, come raro esempio recente, la Turchia fino a tre
anni fa. Sia l’Italia sia la Turchia hanno pagato per anni
alti tassi reali (quelli turchi arrivavano al 7 per cento)
per evitare fughe di capitali (che in questi casi ci sono lo
stesso). Entrambe hanno portato il gioco al limite estremo
(ritirandosene un poco in questi ultimi anni). Il limite
estremo è quello al di là del quale una parte
intollerabile di tasse viene impiegata per pagare gli
interessi. L’Italia non potrebbe riprendere quel gioco se
non stampando moneta (e quindi riprendendosi indietro i
tassi reali distribuiti in precedenza). I turchi che hanno
investito i titoli del tesoro negli anni Novanta hanno
raddoppiato il valore reale del loro investimento, ma se il
gioco fosse andato avanti un minuto di più e il governo non
avesse deciso di imboccare una strada virtuosa, si sarebbero
visti restituire carta straccia. Quando il totale del debito
interno e estero supera il 100 per cento del Pil (con la
nota eccezione del Giappone) il punto di non ritorno è
sempre in agguato. Ci sarebbero benefici per gli
asset reali da una svalutazione? Non ci sarebbero per gli
immobili, per lo meno nel medio termine. Subito dopo il
changeover ci sarebbe certamente un flight to quality di cui
beneficerebbero anche le case. Le case verrebbero però
acquistate come deposito di valore (come succedeva negli
anni Settanta), non come asset economico. L’incremento di
prezzo generato dalla funzione di deposito di valore viene
però sempre a decadere una volta che le condizioni generali
si stabilizzano. Accadde così per le case e per l’oro
dopo il 1982. Dopo la fiammata iniziale, dunque,
le case tornerebbero verso il loro valore d’equilibrio di
lungo termine. Che è dato in parte dal livello dei tassi e
in parte dalle condizioni generali di reddito del paese. Con
i tassi più alti e i redditi (una volta tradotti in dollari
o in euro esteri) più bassi, i prezzi delle case
tenderebbero a ridiscendere. Per l’equity
accadrebbe il contrario, con una discesa iniziale e un
recupero successivo. Accade quasi sempre così quando la
svalutazione non è lenta e ben controllata. Una
svalutazione in un’atmosfera caotica provoca fuga di
capitali e discesa della borsa fino all’overshooting del
cambio. A cambio debolissimo e ripresa di controllo avviata
la borsa tende invece a recuperare brillantemente.
Una svalutazione ha effetti molteplici. Per quanto riguarda
gli asset finanziari è difficile trovarne di positivi se
non essendo molto felici nel timing. Non va poi dimenticato
che l’effetto immediato non è molto diverso da quello di
una patrimoniale massiccia. Gli italiani sono da tempo molto
infelici. Questo può essere comprensibile sotto certi
aspetti, ma è difficile da capire quando si guardano le
cose sotto il profilo patrimoniale. In dollari (la valuta
delle Americhe e dell’Asia) sono più ricchi del 45 per
cento rispetto a tre anni fa. Le case, le azioni e i bond
lunghi si sono apprezzati dal 30 al 50 per cento.
Probabilmente non saremo mai più così ricchi. Già lo
siamo del 10 per cento in meno, in dollari, rispetto
all’inizio dell’anno. La soluzione
strategica, per chi è basato nell’anello debole italiano
di un’area in decadenza come l’Europa, non è comprare
case. Non è nemmeno comperare dollari, valuta che dovrebbe
svalutare almeno tanto quanto l’euro (tanto che alla fine
il cambio rimarrà, debole uno e debole l’altro, tra 1.20
e 1.30, come si augura il FondoMonetario). La soluzione è
comperare Asia. Alla fine la ricchezza va a chi lavora.
L’Asia lavora il doppio di noi, studia più di noi,
risparmia e investe più di noi, fa più figli di noi. Non
c’è nessun motivo per cui non debba diventare più ricca
di noi. Lo farà in parte con un apprezzamento
dell’equity, ma non tantissimo perché non è abbastanza
attenta ai margini di profitto ed è soggetta a crisi
bancarie. In gran parte, quindi, lo farà attraverso il
cambio. Continueremo a ripeterlo molto a lungo.
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