Andate tutti a Detroit. Cari sindacalisti, amici Epifani,
bandiere rosse e lotta dura per quel che resta senza paura:
se volete davvero festeggiare il lavoro, fatevi un viaggetto
laggiù dalle parti del vostro Obama, che tanto amate (forse
perché poco conoscete): scoprirete dov'è la vera festa del
lavoro. E scoprirete come di colpo, oggi, appaiano vecchi i
vostri cortei, le vostre marcette, l'inevitabile intervento
del compagno segretario che ribadisce la «centralità
dell'occupazione», e avanti popolo naturalmente con
«musica e solidarietà». A Milano, per darsi un piglio da
terzo millennio, una manifestazione è stata ribattezzata
«Euromayday», a Roma annunciano che sul palco arriva la
realtà virtuale. Tutto inutile. La sostanza, oggi, è
evidente: voi siete rimasti al solito concertone. E gli
altri, ve le suonano. Il lavoro oggi lo difende Marchionne.
Il lavoro lo difende l'amministratore delegato dell'
impossibile, l'uomo che ha trasformato Pomigliano d'Arco in
un sogno americano e Mirafiori in un film di James Dean.
L'America era Atlantide, ora lo è Cassino, agli eroi di
Fort Apache si sostituiscono quelli di Fort Lingotto.
Gunga-Din e Ringo, ma soprattutto Sergio d'Abruzzo. C'è un
pezzo d'Italia che salva l'industria mondiale, c'è un pezzo
d'Italia che ha già un piede dentro il futuro mentre le
nostre piazze s'immergono negli slogan del passato:
«Lavoro, legalità,democrazia» (Bologna), «Più pace e
più diritti in Medio Oriente» (Rovereto), «La musica per
i diritti civili »(Vibo Valentia), «Per vincere la crisi»
e «Per il lavoro senza se e senza ma» (Torino) fino
all'immancabile «Rilanciare il Mezzogiorno» (Napoli).
Vasco Rossi a parte, sempre la stessa musica, insomma.
Chissà se qualcuno ha spiegato ai nostri amici che marciano
per il Medio Oriente e per i diritti civili, naturalmente
senza se e senza ma e rilanciando il Mezzogiorno, quello che
sta capitando nel mondo sognante e misterioso di Paperino.
Non è roba da Walt Disney, però. Tanto per dire: fra le
altre cose i sindacati americani hanno siglato un accordo
che impedisce loro di scioperare fino al 2015. E hanno
accettato un taglio di salari di 19 dollari l'ora (nota
bene: l'ora). Ma voi ve lo immaginate il nostro amico
Epifani che per salvare un' azienda rinuncia al diritto di
sciopero fino al 2015? Ma voi ve l'immaginate lotta dura
senza paura che si astiene dal fermare treni e autobus anche
solo per qualche settimana consecutiva? Piuttosto rinuncia
alla suite deluxe, lui che è abituato a bruciare in due
notti in hotel lo stipendio mensile di un operaio... Si badi
bene: l'accordo è stato siglato dall'ala più dura del
sindacato americano. Di fatto, la Fiom d'Oltreoceano. E
questo ci mette di fronte a un paragone imbarazzante:
perché se anche da noi c'è una parte di sindacato
ragionevole e collaborativa, l'ala dura è quella che dice
no a tutto. Dice no al nuovo modello contrattuale, dice no
all'accordo sul pubblico impiego. Dice no persino a un
imprenditore (Della Valle) che vuol mettere 1400 euro in
più in busta paga ai suoi dipendenti, perché osa stabilire
la cifra di testa sua senza concertarla con le
rappresentanze confederali. È il sindacato che mette la
propria esistenza davanti alla difesa dei lavoratori,
l'ideologia davanti alla soluzione dei problemi. È il
sindacato che non fa più il sindacato perché ha trovato
che rende meglio starsene lì, accucciato dietro il palco
del concertone, per continuare a fare politica. È il
sindacato di Epifani che non firma l'accordo sulla pubblica
amministrazione e poi si lamenta per iscritto con Berlusconi
perché non viene invitato alle riunioni convocate per
applicarlo. È il sindacato, per dire, che scrive con uno
dei suoi massimi rappresentanti che il «lavoratore
efficiente è una nuova forma di sfruttamento» (per non
essere sfruttato, dunque, il lavoratore deve essere
necessariamente inefficiente?). È il sindacato che a
Marghera fa bloccare la cerimonia di consegna di una nuova
nave e a Milano vuole bloccare il buono da 1500 euro per
15mila famiglie povere perché, a suo parere, fra i
beneficiari non ci sono abbastanza immigrati. È il
sindacato del tanto peggio tanto meglio, dell'invidia
sociale, del pauperismo ideologico; è il sindacato che mira
a far star tutti peggio, tranne Epifani, s'intende, che lui
ha sempre a disposizione la sua suite de luxe nel più bello
degli hotel. Striscioni e Vasco, rossi e Rossi: la festa di
piazza San Giovanni per fortuna si fa. Noi l'abbiamo difesa
quand'era in dubbio. Noi non la vorremmo vedere abolita. Ma
vorremmo che oggi in piazza si festeggiasse anche un lavoro
diverso. Il lavoro vero. Quello delle piccole imprese, per
esempio. Quello dei lavoratori autonomi. Quello delle
partite Iva. Quello di chi anche in questi mesi ha
continuato a tenere il Paese in piedi mentre Epifani e soci
scandivano gli slogan contro la crisi, salvo poi raddoppiare
vigliaccamente le tariffe del patronato per chi ha bisogno
d'aiuto. Vorremmo che dopo il 25 aprile cambiasse anche il
Primo Maggio. Ma chissà perché questa volta Franceschini
non ha invitato Berlusconi in piazza. Chissà perché. E
così il 25 aprile cambia, il Primo Maggio no. Cambia solo a
Detroit. Quello che ci troveremo di fronte oggi in Italia,
invece, sarà il solito sindacato, l'ultimo grande partito
del Novecento, vero residuo di un mondo che va scomparendo.
Il sindacato dei pensionati. Il sindacato delle tessere. Il
sindacato dei Caf. I tre porcellini, comeliha chiamati
perfidamente D'Alema. La sola Cgil ha un giro d'affari
valutato in un miliardo di euro. E, in barba alla
Costituzione (a proposito di sacri principi), questi soldi
vengono gestiti come alla bocciofila di Carugate: nessun
bilancio consolidato, la trasparenza di una capasanta
gratinata. Solo i delegati dei tre sindacati (700mila, sei
volte più dei carabinieri) costano al Paese un miliardo e
854 milioni di euro l'anno. Sono cifre note, le avremo
scritte decine di volte, su queste colonne. Ma continuano ad
essere vere. Continuano a non cambiare. E oggi, guardando a
Detroit, ci appaiono ancora più vecchie. Ancora più
stantie. Appena sentito l'annuncio ufficiale dell'accordo
Fiat Chrysler, Epifani ha commentato: «L'operazione apre
una pagina nuova». Che dire? L'ha capito anche lui. Poi ha
aggiunto: «Ora è necessario un tavolo di confronto». E
qui cominciano a venire i brividi. Perché con chi ci si
siede al «tavolo di confronto»? Con il sindacato americano
che rinuncia allo sciopero fino al 2015 o con quello
italiano che blocca i mezzi pubblici un giorno sì e l'altro
no? Con il sindacato che rinuncia a 19 dollari l'ora o
quello che mostra il cappio quando all'Alitalia vengono
regalati sette anni (sette) di cassa integrazione?
Oggi la festa del lavoro si fa a Detroit. E così,
all'improvviso, nel mondo che cambia, ci appare
insopportabilmente obsoleto il caravanserraglio dei nuovi
lamacarnitibenvenuto che cambiano nome, ma rischiano di
restare sempre uguali a se stessi, stanchi sacerdoti di riti
ormai svuotati, altoparlanti che ripetono parole inutilie
abusate. Oggi è chiaro a tutti: la festa del lavoro non è
quella della Cgil, è quella di Marchionne. Voi tenetevi
l'intero vostro concertone, per la nuova musica basta un
accordo.
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