Il Beppe Grillo dei poveri si chiama Eugenio Benetazzo,intervista al Giornale
di Firmo
19 marzo 2006 0:00
Il Beppe Grillo dei poveri: «Con Prodi taglio delle
pensioni e Bot congelati»
di Stefano Lorenzetto
Il Beppe Grillo dei poveri si chiama Eugenio Benetazzo ma,
per un fatto di giustizia, i suoi genitori 32 anni fa
avrebbero dovuto registrarlo all'anagrafe di Sandrigo
(Vicenza) col nome Dow Jones. Per via dell'indice: come lo
punta lui, non lo punta nessun altro. Contro le Borse,
contro le banche, contro i politici, contro i petrolieri,
contro tutti. Persino contro se stesso. Ha scritto un
samizdat da 10 euro che sta andando a ruba: Duri e puri.
Aspettando un nuovo 1929. Il libro si prefigge in copertina
di spiegare «come salvare i propri risparmi e sopravvivere
a un mutamento di scenario epocale senza precedenti». Per
molto meno all'economista Paul Samuelson conferirono il
premio Nobel.
Benetazzo fa il trader professionista, cioè l'operatore di
Borsa indipendente. Vive sei mesi all'anno nel Veneto e sei
mesi a Malta («ho portato le chiappe al sicuro nel caso che
vinca la sinistra»), con frequenti soggiorni in terra
elvetica. A chi gli chiede se è sposato, risponde: «Sì,
con la sterlina. E mio suocero si chiama Franco Svizzero».
La sua bravura, confida, «consiste nell'individuare livelli
borsistici di entrata e di uscita, anche fulminea, su
azioni, valute, indici e commodity», vale a dire i beni
primari: grano, zucchero, cereali. In pratica è uno
speculatore come Randolph e Mortimer Duke, gli spregiudicati
finanzieri del film Una poltrona per due. Anzi, per essere
più precisi, lui assomiglia a Billy Ray Valentine, il loro
astuto manager nero interpretato da Eddie Murphy, che nel
finale s'inchiappetta i due avidi vecchietti giocando
d'anticipo sulle quotazioni del succo d'arancia
congelato.
Però in questo momento Benetazzo è tutto preso dal nuovo
ruolo di Beppe Grillo dei poveri. Gira l'Italia col suo
«one man live show», spettacolo dal vivo che s'è scritto
da solo e che recita da solo. S'intitola Blekgek. Ogni
settimana inventa uno slogan per attirare il pubblico. A
Thiene era Schiavi senza catene, alla ricerca della verità
che vi renderà liberi dalla schiavitù del turbocapitalismo
multinazionale. A Milano l'aveva un po' asciugato: Duri e
puri in tour. A Montegrotto Terme virava sul catastrofico:
Prepàrati al peggio. Prima che tocchi tutte le 20 tappe
previste - da Roma a Verona, da Piacenza a Pontedera -
chissà quanti altri slogan avrà partorito la fervida
immaginazione del protagonista. Il quale ovunque vada
riempie le sale, anche perché il suo manicheismo lo
dispensa gratis, a differenza del comico genovese che vende
a 20 euro il biglietto d'ingresso meno caro.
Del resto ci vorrebbe un bel coraggio a farsi pagare dagli
spettatori dopo avergli profetizzato, con un profluvio di
cifre, percentuali e citazioni, l'esaurimento del petrolio,
il rischio di un nuovo crac di Borsa simile a quello del
1929, il taglio delle pensioni e il blocco dei depositi
bancari in caso di vittoria del centrosinistra alle elezioni
del 9 aprile, il congelamento dei Bot e degli altri titoli
di Stato, una super patrimoniale sulle case, l'esplosione
della bolla immobiliare, nuovi disastri finanziari al cui
confronto le truffe Cirio e Parmalat sembreranno marachelle
da scolari. E quando non è impegnato in tournée a
disegnare cupi scenari per le ansiose platee, Benetazzo
tiene sermoni economico-politici su una propria emittente,
Radio Wall Street, che si ascolta su Internet.
Ma quali competenze ha per fare tutto questo?
«Solo una laurea in economia aziendale conseguita
all'Università di Modena e il mio lavoro in Borsa. Nessun
pedigree familiare: padre dirigente di banca, madre
impiegata statale».
Che significa Blekgek?
«È una storpiatura di black jack. Niente a che vedere col
gioco d'azzardo: è il nomignolo con cui i petrolieri
chiamano il maglio delle torri di perforazione. Tutto lo
spettacolo verte sull'argomento più censurato al mondo:
l'oro nero».
Censurato perché?
«Perché abbiamo raggiunto il picco di produzione del
petrolio - 80 milioni di barili al giorno, pari a quasi 13
miliardi di litri - e d'ora in poi le estrazioni potranno
solo calare. E se alla pianta, che è il capitalismo, viene
a mancare la linfa, che è il petrolio, c'è poco da stare
allegri. Per dare un'idea, quando John Davison Rockefeller,
il più grande monopolista del passato, fondò nel 1870 la
Standard Oil Company, l'offerta produttiva era di 5 milioni
di barili l'anno. Oggi siamo arrivati a 29 miliardi di
barili l'anno. Ma una quantità simile per il futuro ce la
sogniamo. Per ragioni geofisiche e per problemi di
raffinazione: il petrolio che resta nelle viscere della
Terra è troppo ricco di zolfo».
Chi lo dice?
«Lo diceva Marion King Hubbert, geofisico della Shell,
morto nel 1989, e lo conferma Colin Campbell, fondatore
dell'Aspo, Association for the study of peak oil and gas,
reputato il massimo esperto del settore. La produzione
decrescerà bruscamente, con implicazioni macroeconomiche e
sociali mai viste prime. L'offerta calerà del 3-4% l'anno,
mentre la domanda continuerà a salire del 5-6%. Gli arabi
dell'Opec ci hanno presi in giro sostenendo d'avere riserve
per 50 anni. Ma pochi sanno che lo affermavano per loro
tornaconto: più gonfiavano il dato sulle riserve e più
erano autorizzati a esportare».
I «duri e puri» del suo libro chi sarebbero?
«Coloro che scelgono di fare informazione d'inchiesta. Mi
sono improvvisato giornalista e opinionista, senza esserlo,
per sopperire a un deficit di impegno civile della sua
categoria. Gli argomenti di cui tratto nel mio show
dovrebbero essere pane quotidiano a Porta a porta e nei
tiggì».
Dice?
«Dico. Altrimenti non si spiegherebbe perché, da quando mi
sono messo a girare l'Italia, insieme con tanti complimenti
sto ricevendo anche un sacco di minacce. Tanto che a Thiene
e a Pontedera la questura ha predisposto il pattugliamento
del teatro».
Che cosa ci guadagna con questo show?
«Purtroppo nulla. Anzi, ci perdo».
Allora perché lo fa?
«Mi piace».
Si sente divo?
«Diciamo così. Forse un retaggio di quando, da studente
universitario, facevo l'animatore nei villaggi
turistici».
Che cosa le fa pensare che sia imminente un crollo delle
Borse peggiore di quello che colpì Wall Street nel
1929?
«Le previsioni dei più quotati analisti indipendenti, che
però non trovano spazio sui media».
Imminente quanto?
«Già il 2006 sarà molto critico. Questo lunedì
s'inaugura la Iob, Iranian oil bourse, che per la prima
volta nella storia quoterà il petrolio in euro anziché in
dollari. Quindi gli investitori, anziché comprare un barile
di brent per 60 dollari al Nymex di New York o all'Ipe di
Londra, che finora sono state le due principali borse
petrolifere mondiali, potranno acquistarlo a Teheran per 45
euro. L'Iran è il secondo produttore di greggio e la sua
Iob ha avuto l'adesione del Venezuela, che è il terzo,
governato dal marxista Hugo Chavez. È questa la vera bomba
atomica che gli ayatollah stanno preparando: una caduta
vertiginosa del dollaro».
Esiziale per l'economia statunitense.
«Tanto più se si considera che il deficit federale è ai
massimi storici, appesantito dalle spese militari per le
guerre in Afghanistan e in Irak, la seconda delle quali è
già costata 250 miliardi di dollari. Si profila un brusco
declino dell'egemonia planetaria della moneta americana.
Questo evento, oltre che costituire un formidabile incentivo
per un intervento militare contro l'Iran, farà da
detonatore a un processo di deflazione valutaria, mobiliare
e immobiliare. Che sarà aggravato in Eurolandia da un
cospicuo rialzo dei tassi d'interesse. I due ritocchi
all'insù di un quarto di punto decisi dalla Banca centrale
europea il 1° dicembre e il 1° marzo non sono che un
assaggio: nei prossimi nove mesi il costo del denaro è
destinato a salire dal 2,50% al 3,50. Chi ha un mutuo a
tasso variabile sulla prima casa cammina sull'orlo di un
burrone. Nessun giornale lo ha scritto, ma in Giappone vi è
stato un aumento del 35% dei suicidi: le vittime sono
capifamiglia che, in seguito al rialzo dei tassi, non
riescono a onorare il debito con la banca neppure vendendo
l'immobile per cui hanno chiesto il prestito».
Ammesso che lei abbia ragione, che cosa consiglia al
risparmiatore?
«Primo: estinguere i mutui. Secondo: fuggire da tutti gli
investimenti mobiliari quotati in dollari. Terzo: comprare
terreni. E oro. In questi giorni sta a 545 dollari l'oncia,
due anni e mezzo fa ne valeva 200. Arriverà a 1.000».
Vabbè, ma se tutto salta in aria che se ne fa dei
lingotti?
«Invece con euro e azioni che cos'ha in mano? Carta
straccia. Chi erano i ricchi nel Medioevo? Coloro che
possedevano terreni e oro. Fra cent'anni sarà la stessa
cosa».
In alternativa?
«Comprare franchi svizzeri. La moneta elvetica è l'ultimo
baluardo. Se si deprezza quella, torniamo all'età della
pietra. Ma sarà l'ultima fortezza a cadere, perché è la
cassaforte di multinazionali, dittatori, politici, lobbisti,
mafiosi, trafficanti di armi, finanziarie di controllo e
persino, non vorrei apparire irrispettoso, del
Vaticano».
Franchi svizzeri? Ma se ha appena detto che le valute sono
carta straccia.
«Be', in Svizzera si possono trovare prodotti a capitale
protetto e a rendimento garantito, quelli che nei Paesi
anglosassoni chiamano umbrella funds: se piove, apri
l'ombrello e non ti bagni».
Qualora alle elezioni del 9 aprile dovesse vincere l'Unione,
che cosa accadrebbe?
«Un peggioramento della situazione competitiva del nostro
Paese. Perché, da sempre, centrosinistra significa aumento
della spesa pubblica e ingovernabilità politica».
È probabile a suo avviso un prelievo improvviso e coatto
sui depositi monetari, come fece il premier Giuliano Amato
spolpando i nostri conti correnti?
«E me lo chiede? Sarà anche più pesante, del 2-3%, altro
che il 6 per mille del 1991. Tra gli Anni 70 e 90 la Dc
prima e l'Ulivo poi hanno dato tutto a tutti. Adesso
qualcuno deve pagare il conto. Ma quando non c'è più
denaro, solo una cosa si può fare: non pagare. L'Italia non
è messa meglio dell'Argentina. Quando vi fu il crac
argentino, il rapporto fra debito pubblico e prodotto
interno lordo della nazione sudamericana era al 140%. Noi,
nonostante il governo Berlusconi sia riuscito un po' a
ridurlo pur in presenza di una drammatica congiuntura
internazionale, siamo quasi al 107. Ci servono 6 punti
percentuali di Pil solo per pagare gli interessi sul debito
pubblico. Ai tassi attuali».
Per cui?
«Romano Prodi taglierebbe le pensioni. In fin dei conti la
Germania, che ha un rapporto deficit-Pil del 60%, le ha già
ridotte del 25% e nel 2004 non ha corrisposto le tredicesime
a statali e parastatali. Una bella riforma di sinistra che
fu varata, senza manifestazioni di protesta né scioperi
generali, dal cancelliere socialdemocratico Gerhard
Schröder, che aveva per ministri gente come Joschka
Fischer, ex fiancheggiatore dei terroristi rossi».
Nel suo show lei paventa anche il congelamento dei Bot.
«Sì. Sarebbe già una fortuna se questi signori
restituissero a tranche, nel giro di tre anni e senza
interessi, il valore nominale dei titoli di Stato».
E una super tassa sulle rendite finanziarie e sulle seconde
case.
«Prime, seconde, terze. Sugli immobili in generale. Una
super Ici, una super patrimoniale. È una democrazia
parassitaria, la nostra, non parlamentare. Con due cancri in
metastasi: il sistema bancario e quello politico. Non credo
che oserebbero tassare i capital gain. A meno che ministro
delle Finanze non diventi Fausto Bertinotti. Da Prodi mi
aspetto anche un congelamento dei depositi bancari, col
permesso di ritirare dai propri conti correnti solo 200 euro
la settimana. Già visto in Argentina».
E altri scandali tipo Cirio e Parmalat.
«Spenga il registratore e le faccio il nome del prossimo
grande gruppo che andrà a carte quarantotto». (Spengo. Lo
fa. È un gruppo davvero grande).
La sua idea è che l'Italia sia un Titanic che ha già la
stiva allagata.
«Precisamente. I passeggeri di terza classe ballano,
mangiano, guardano La fattoria e il Grande fratello,
inseguono l'ultimo modello di telefonino, progettano le
prossime vacanze, e intanto i ricchi sono già saliti sulle
scialuppe di salvataggio. Il tessile-calzaturiero, la
meccanica, l'oreficeria, che erano il vanto del made in
Italy, sono flagellati dalla concorrenza cinese. I piccoli
imprenditori, ex operai arricchiti che non hanno mai aperto
un libro in vita loro, arrancano in questi comparti ormai
obsoleti, non possedendo le risorse intellettuali per
lanciarsi nelle sfide del futuro, che sono le biotecnologie,
l'energia, l'informatica, i trasporti di terza
generazione».
Che cosa suggerisce?
«Come sul Titanic, azionare le pompe, cioè introdurre dazi
doganali, non basterà a prosciugare la stiva dall'acqua.
Però possiamo provarci: subito il blocco totale di tutte le
importazioni di manifattura orientale. Idem per i prodotti
che gli imprenditori italiani fanno assemblare in Cina per
poi venderli qua. E poi ci vorrebbe una super imposta sui
risultati d'esercizio delle banche, così il popolo si
rimette in tasca i soldi del signoraggio».
Perché ce l'ha tanto con le banche?
«Perché dovrebbero avere finalità sociali e non
lucrative. Sa quale importo arriva a concedere un istituto
di credito veneto al cliente che si presenta a chiedere un
mutuo per l'acquisto della prima casa? Il 120%. Non sto
scherzando. Ti comprano loro l'abitazione e in più ti
offrono un 20% per le spese notarili, i mobili, la
tinteggiatura, il trasloco e anche per la cassa da morto,
aggiungo io. Ma si può? Se dieci anni fa mi fossi
presentato a un direttore di banca a domandare un prestito
senza avere in mano almeno il 50% del valore dell'immobile,
sarei stato cacciato a calci nel sedere. Adesso è lui a
insistere per riempirmi le tasche di soldi che non potrò
restituire. Ieri ho ricevuto per posta una carta di credito
mai richiesta: c'è sopra un fido rotativo di 2.500 euro.
Dopo averli spesi, devo solo ricaricarla. Nel frattempo
l'interesse è del 18%, al limite dell'usura».
Lo chiamano credito al consumo.
«Diciamocelo, una buona volta: gli italiani spendono denaro
che non hanno. Si sono convinti di poter comprare a rate
anche la Ferrari. I loro stipendi, prim'ancora d'essere
accreditati sul conto corrente, sono già bruciati in rate
per la casa, l'auto, il motorino, la Tv al plasma, il
computer. È un'anomalia storica. I nostri genitori
accantonavano, con sacrifici e rinunce, fieri di tramandare
ai figli. Oggi i loro figli hanno sperperato la dote, devono
intaccare il capitale per sopravvivere».
Comunque il mondo s'è ripreso anche dal crollo di Wall
Street del '29, mi pare.
«Dopo sei anni, però. Con la differenza che oggi sta
finendo il petrolio. Viviamo in un'epoca in cui è il denaro
che sposta gli uomini, non sono più gli uomini che spostano
il denaro. È questa l'essenza della globalizzazione. Lo
stadio terminale del turbocapitalismo».
Dopo che cosa ci attende?
«Un nuovo Medioevo. Un'era postindustriale in cui si
tornerà a coltivare la terra con la zappa e il sudore della
fronte. Perché lei deve spiegarmi come li muove, finito il
petrolio, i trattori da 6.000 di cilindrata, 800 cavalli, 12
cilindri, e l'aria condizionata per il conducente. Mettendo
i pannelli solari sulla cabina?».
E viene a dirmelo proprio lei, che vive di Borsa, quanto di
più improduttivo e immateriale possa esistere?
«Esatto. Sono un parassita della società. Al pari di un
politico. Però faccio meno danni».
Ha mai rovinato qualche cliente?
«Se per rovinato intende avergli fatto perdere più del 25%
del capitale, no».
Quanto le basta al mese per vivere?
«Non più di 750 euro. E da due anni ho rinunciato ad avere
un'auto. Altrimenti sarei incoerente».
Che cos'è il denaro per lei?
«Uno strumento per lavorare».
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