Fuori dalla crisi senza ricorso all'austerità, ha appena
visto alzato il suo rating.
Maria Grazia Bruzzone
http://www.lastampa.it/Blogs/underblog
In attesa del nuovo governo che verrà, e pur davanti a dati
sempre più negativi sull'Europa, c’è chi afferma di
vedere segnali di ripresa in Grecia - malgrado le immagini
agghiaccianti che continuano ad arrivare da Atene, dove
l’austerità imposta da Europa a e FMI ha ridotto molta
gente alla fame, fatto crollare il Pil del 6%, con una
disoccupazione al 27% (era al 17,8%un anno fa), al 60% tra
giovani e mille nuovi senza lavoro ogni giorno .
Meno si parla invece dei successi di un altro paese, sia pur
minuscolo, che ha già ricominciato a crescere, e si è
tirato fuori dalla crisi senza aver fatto pagare ai
cittadini il prezzo della bancarotta provocata da una
finanza sregolata. L’Islanda è appena stata premiata
dalle agenzie di rating che le hanno rialzato il punteggio
da BB- (spazzatura), a BBB, rating che consente di nuovo di
ricevere investimenti esteri. Come ha fatto?
Con una ricetta anomala, decisamente controcorrente e poco
austera, che ha punito più le banche della gente.
Durante i recenti incontri di Davos il presidente Olafur
Grimson, alla domanda sul perché l’Islanda si stia
risollevando mentre il resto d’Europa rimane debole, ha
risposto così:
“Credo che sorprenda molta gente il fatto che ancora un
anno fa eravamo considerati dal mondo un sistema finanziario
fallito, mentre oggi siamo in ripresa, con un’economia in
crescita e una bassa disoccupazione. E ritengo che la
ragione primaria sia che non abbiamo seguito l’ortodossia
tradizionale che ha prevalso nel mondo Occidentale negli
ultimi 30 anni. Abbiamo introdotto controlli nei movimenti
di capitale, abbiamo lasciato fallire le banche, abbiamo
sostenuto i più poveri e non abbiamo introdotto misure di
austerità su larga scala come vediamo fare qui in Europa. E
alla fine vediamo i risultati, molto diversi da quelli di
altri paesi”.
E ha aggiunto: “Perché dobbiamo considerare le banche i
sacri templi dell’economia moderna?... La teoria che
bisogna salvare le banche è una teoria che riguarda i
banchieri che si godono i profitti quando hanno successo e
lasciano che la gente comune sopporti il peso dei loro
fallimenti attraverso tasse e austerità, cosa che i popoli
che vivono in democrazia alla lunga finiranno per non
accettare”.
La citazione la prendiamo da un post di Ellen Brown,
avvocato americano e battagliera presidente del Public
Banking Institute, un pensatoio eretico e “scandaloso”
che propugna una riforma monetaria e un sistema di banche
pubbliche che facciano l’interesse dell’economia reale e
della gente.
E “scandalosa” per molti versi è anche la ricetta
applicata in Islanda, alternativa rispetto a quelle di
Grecia, Irlanda, Spagna e Italia. Qualche mese fa i media ne
hanno parlato, ma senza troppo enfatizzare. E se
l’essenziale lo offre l’agenzia Reuters, non per caso
forse la cronaca più dettagliata della vicenda l’abbiamo
trovata …su un sito russo.
Dunque: nel settembre 2008 la crisi post Lehman impatta
brutalmente l’Europa e non risparmia l’Islanda, paese di
soli 320.000 abitanti. Le tre maggiori banche, i cui assets
sono dieci volte superiori al Pil del paese, vanno in
bancarotta. Sono in rosso per $85 miliardi. La moneta
locale, la corona, si deprezza dell’80% rispetto
all’euro. Il debito sale alle stelle fino al 900% del Pil,
che dal 2008 al 2010 crolla dell’’11%. Nello stesso
periodo la disoccupazione tradizionalmente bassissima cresce
di 9 volte. Il paese è in recessione.
Il ruolo dei cittadini. Nel 2009 il governo si appresta a
varare le solite misure draconiane chieste dal Fondo
Monetario Internazionale – in cambio di un primo aiuto di
2,1 miliardi di euro. Ma è costretto a dimettersi da una
forte mobilitazione popolare. Alle elezioni la sinistra
Socialdemocratica conquista la maggioranza e diventa premier
Johanna Sigurdardottir. Ma sono gli islandesi ormai a voler
dire la loro.
Banche. Il nuovo governo non inietta fondi nelle banche
fallite come hanno fatto tanti governi, più o meno
segretamente, ma le nazionalizza.
Introduce stretti controlli dei movimenti di capitale.
Obbliga le banche private a cancellare tutti i mutui a tasso
variabile superiori al 110% del valore immobiliare.
La Corte Suprema mette fuorilegge i prestiti in valuta
straniera dati alle famiglie.
Un provvedimento del governo, che stabilisce di ripagare 3,5
miliardi di euro (40% del Pil) in 15 anni al 5% di interesse
a una banca straniera online fallita i cui depositanti erano
quasi tutti inglesi e olandesi, viene bloccato dal
presidente Grimson che interpreta il malcontento degli
islandesi, e sottoposto a referendum popolare. E’
bocciato dal 93% degli abitanti nel 2010 e una seconda volta
dal 63% nel 2011. Il governo deve affrontare uno scontro
duro con Olanda e Gran Bretagna che hanno già rimborsato i
loro cittadini.
E banchieri. I responsabili del disastro finanziario,
banchieri e speculatori, non beneficiano della comprensione
accordata nel resto d’Europa. Un procuratore speciale
nominato dal parlamento li persegue e li arresta, compreso
l’ex primo ministro Geir Haarde.
Nuova Costituzione. Una nuova costituzione di 114 articoli,
scritta da un’assemblea di 25 cittadini eletti a suffragio
universale fra 522 candidati, è adottata nel 2011.
Stabilisce il diritto all’informazione, la creazione di
una Commissione di Controllo della “responsabilità”
(accountability) del governo, il diritto dei cittadini ad
essere consultati sulle leggi (il 10% potrà chiedere
referendum sui provvedimenti votati dal parlamento) e
persino sulla nomina del Primo Ministro.
Austerità socialmente sostenibile. Tra le prime misure
adottate vi sono drastici tagli alla spesa pubblica e una
disciplina rigorosa dei conti. Ma conservando i vantaggi
dello stato sociale, condonando debiti delle famiglie per
1.5 miliardi di dollari e concedendo benefici fiscali alle
famiglie più povere.
“Abbiamo tagliato la spesa ma preservando il più
possibile istruzione, sicurezza sociale e infrastrutture
come il rinforzo della legalità. Introdurre più rigore e
nello stesso tempo mantenere un welfare forte sono le misure
necessarie per ottenere il consenso della gente”, spiega
in una rara intervista ripresa dalla Reuters il premier
Johanna Sigurdardottir, forse non a caso una donna.
“Negli anni prima della crisi il gap fra i ricchi e i
poveri nella società si era allargato molto e le nostre
misure hanno cercato di diminuire questo divario,
introducendo più uguaglianza”.
Non tutto è ancora a posto. Sei mesi fa la disoccupazione
al 7.5% sei mesi fa era si è dimezzata, ma era ancora il
doppio di prima della crisi, il debito delle famiglie era
ancora alto malgrado le misure prese, il debito pubblico non
era ancora sceso sensibilmente. Ma il paese è uscito dalla
recessione ed è cresciuto del 2.1% nel 2011 e del 2.7% nel
2012, grazie anche al valore della corona, ancora del 20%
più basso rispetto a prima della crisi. Il governo sta per
cominciare a ri-privatizzare le banche nazionalizzate e
promette di ripagare il debito col FMI.
Stiamo parlando di un paese minuscolo, con un’economia
molto semplice. E tuttavia:
Il caso dell’Islanda può essere preso a modello per altri
paesi in crisi in Europa? La signora premier islandese
ritiene di sì. E afferma che a pensarla in questo modo è
lo stesso FMI .
Forse è stato folgorato sulla via di Damasco. O si è
convertito alle idee del premio Nobel Joseph Stiglitz che,
dopo essere stato per anni capo economista della Banca
Mondiale e aver studiato a lungo i dossier sui paesi
emergenti ”aiutati” dal FMI, sostiene non da oggi che i
piani di austerità sono un “patto suicida”. Sulla
stessa linea era del resto l’ex direttore generale del FMI
Dominique Strauss Khan, defenestrato nel 2011.
Sicuramente quello islandese è un modello visto come fumo
negli occhi dalle banche, legate l’una con l’altra in
una rete transatlantica, e da Frau Merkel e molto
probabilmente non convince neppure a Mario Monti. Magari
invece piace a Sel, e ai grillini che per ora restano un
buco nero. Mentre il Pd, che pure apprezza le teorie di
Stiglitz, finora ci sembra rimasto sul vago.