Levi, la dinastia
Maurizio Blondet
20/11/2007
Ecco Michael Levi
Mi è venuto un dubbio: che Michael Levi altri non sia che
figlio di Ricardo Franco Levi,
il sottosegretario alla presidenza di Prodi, con delega
all'editoria, l'autore del progettino di museruola su
internet alle notizie sgradite alla nota lobby, un mezzo
burocratico-fiscale per punire le opinioni.
Il che spiegherebbe le ingiunzioni di Michelino a far
tacere, a far licenziare giornalisti, a invocare contro di
loro «provvedimenti urgenti», a «informare» certe ditte,
che alcuni periodici sui quali fanno apparire la loro
pubblicità ospitano articoli di «antisemiti», per cui è
meglio che li mettano alla fame negando loro ulteriori
inserzioni.
Questo atteggiamento verso la libertà di stampa e
d'opinione sarebbe una tendenza di famiglia.
Sarà?
Non sarà?
Contemplo la foto che il giovine psico-poliziotto ha postato
nel suo sito - dal Council on Foreign Relations, nientemeno
- e mi par di notare una somiglianza.
Inquietante.
Se il mio dubbio è fondato, sono davvero nei guai, cari
lettori.
Perché se Michael è il germoglio di Ricardo, allora è
anche il nipote di Arrigo Levi.
Una dinastia potente.
E che, nonostante una certa apparenza di declino
intellettuale scendendo per li rami, potente resta.
Arrigo Levi, nato nel 1926, ha costantemente accompagnato
l'avvocato Agnelli alle riunioni del Bilderberg e della
Commissione Trilaterale, insieme al sindacalista preferito
dall'Avvocato, Giorgio Benvenuto, per una vita segretario
della UIL.
E' raro che la Trilateral accolga sindacalisti nei suoi
consessi segreti: ma l'Avvocato garantiva per il suo
sindacalista di casa.
Tanto più che secondo i maligni, oltre che segretario della
UIL, Benvenuto ne era anche l'unico membro.
Cosa credibile, visto che la UIL era emanazione del Partito
Repubblicano.
Il quale - secondo i suddetti maligni - teneva i suoi
congressi plenari in una cabina telefonica.
E tuttavia De Gasperi non potè fare a meno, nel suo primo
governo, di imbarcare quel partito repubblicano e il suo
segretario Ugo La Malfa.
E a chi gli chiedeva il perché, spiegava che senza La Malfa
imbarcato, non sarebbero arrivati i soldi del Piano
Marshall.
Questo per dire che tipo di potere è quello.
Difatti, m'è parso di vedere Benvenuto nel direttivo del
nuovissimo partito americano di Uòlter Veltroni.
Si vede che serve ancora.
Arrigo Levi era riparato, durante il fascismo, in
Sudamerica: ecco perché il rampollo Ricardo Franco è nato
a Montevideo.
Vista la discendenza, c'è da rimpiangere il vecchio Arrigo,
e da capire la sua luminosa carriera, corrispondente de Il
Corriere da Londra poi suo commentatore internazionale, poi
direttore della Stampa, poi al vertice Rai. fino a diventare
un Venerato Maestro.
Ricordo che discettava, con voce nasale e didattica,
spiegando a noi italiani dappoco le norme e regole della
democrazia unica e vera, quella USA.
Non ricordo se fosse davvero intelligente.
Ma non ne aveva bisogno.
Era di casa al Council on Foreign Relations, dava del tu a
Kissinger: da lì venivano le idee e le direttive, che
Arrigo si limitava a riportare per noi dappoco.
Del resto, ai tempi, la dottrina economica unica non era
ancora il liberismo assoluto e devastatore della scuola di
Chicago, era un keynesismo rooseveltiano, il che andava
benissimo per la Fiat, in quanto legittimava la
socializzazione delle perdite della Casa e il denaro
pubblico che riceveva per «mantenere l'occupazione».
L'Avvocato teorizzava una pace sociale in cui l'inflazione
era il «lubrificante» della dialettica capitale-lavoro:
gli aumenti salariali venivano dalla stampa di lire, e il
potere d'acquisto era sùbito divorato dal rincaro dei
prezzi, ma la macchina sociale, pistone e cilindro,
funzionava come l'olio.
Altri tempi.
Arrigo Levi era uno dei tre personaggi notevoli tornati
sugli automezzi dei liberatori americani a insegnarci la
democrazia.
Il secondo era Renato Mieli, il papà di Paolo, direttore de
Il Corriere: venuto tra noi in uniforme USA, con i gradi di
ufficiale, nei primi mesi di occupazione era un «capitano
Smith» (o qualcosa del genere) a cui i giornalisti italiani
dovevano rivolgersi per ottenere l'autorizzazione a lavorare
e ad aprire giornali, insomma il responsabile della
epurazione morbida del giornalismo per conto degli
Alleati.
Allora, parlava esclusivamente inglese.
Subito dopo, fondò l'ANSA.
Ancora qualche mese, e molti di quei giornalisti che avevano
chiesto l'autorizzazione a scrivere al capitano Smith si
stupirono poi di ritrovarlo, sotto il nome di Renato Mieli,
come direttore de L'Unità.
L'organo del PCI diretto da un ufficiale americano?
Evidentemente l'OSS (futura CIA) aveva deciso che occorreva
loro un controllore dentro quel partito.
Renato Mieli, che probabilmente era tanto comunista quanto
era un dromedario, resistette disciplinato dieci anni: nel
'56, la rivolta d'Ungheria gli diede il destro di andarsene
sbattendo la porta, e scrivendo peste e corna sugli orrori
staliniani del Partito comunista.
Scrisse anche una sua biografia, «Deserto Rosso, dieci anni
da comunista»: titolo rivelatore. Effettivamente, dieci
anni di recitazione da comunista sono tanti.
Si finisce per non poterne più.
Trovò ospitalità da Montanelli.
Ma anche un altro lavoro: la direzione del CESES, un
«osservatorio sui Paesi dell'Est» pagato dagli USA,
affollato di agenti slavofoni che andavano e venivano da là
(ma mi pare ci fosse anche Giuliano Amato) e diretto nelle
cose concrete da tale Warren Nutter, un economista
(chiamiamolo così) che era stato allievo di Milton Friedman
a Chicago.
Il terzo personaggio notevole di quella generazione fu Ugo
Stille.
Anche questo sbarcò nel '43 con le truppe USA, in veste di
«sergente Micha Kamenetzky» (il suo vero nome) e subito
divenne direttore di Radio Palermo.
Era l'emittente allestita dagli Alleati subito dopo la
conquista della Sicilia.
Ma per poco: Stille seguì la truppa yankee su per l'Italia,
fino a Milano.
A Il Corriere, naturalmente.
Pronti: che mansione preferiva?
Dica, Kamenetzsky, oggi la stampa è libera in Italia.
Stille preferì tornare a Washington, commentatore per il
Corriere.
Se Arrigo Levi da Londra echeggiava le visioni di Kissinger
e del Council on Foreign Relations di Rockefeller,
Kamenetszky spezzava, per noi italiani, il pane della
sapienza della Brookings Institution, un think tank un
tantino più liberal ma non meno potente, visto che questa
fondazione privata stilò da capo a fondo il Piano Marshall,
che poi il Congresso approvò senza variazioni
nel 1948.
Insomma fra Levi e Stille correva la stessa differenza che
corre tra i «repubblicani» e i «democratici» in USA, due
sfumature di tinta dei poteri forti che in Italia erano
rappresentati dal partito liberale (di «destra») e dal
repubblicano («sinistra», diciamo).
Due partiti artificiali, creati in laboratorio -
nell'ufficio studi della Banca Commerciale dove Raffaele
Mattioli, il laicissimo, aveva allevato La Malfa e Malagodi,
Merzagora e Cuccia, distribuendo le parti fra loro quando
l'Italia sarebbe stata liberata: tu Malagodi farai il
liberale, tu La Malfa farai da mazzinianno, repubblicano
intransigente.
Tu Merzagora alle Assicurazini Generali, tu Cuccia,
Enrichetto mio, a Mediobanca - insomma avete capito.
Era la libertà, finalmente.
PLI e PRI poi gli italiani non li votarono, e non si riuscì
a fare il bipartitismo perfetto della perfetta democrazia
americana.
Stavolta si spera che andrà meglio a Uòlter e al
Belursca.
Perché il potere di quella prima generazione sussiste.
Emana ancora un raggione da teletrasporto da far impallidire
il dottor Spock.
Basta pensare a dove sta Paolo, il figlio di Renato
Mieli.
Basta dire che Gianni Riotta, per il solo fatto di aver
scodinzolato per anni attorno ad Ugo Stille chiamandolo
Venerato Maestro e professato per lui la sua infinita
ammirazione (slurp slurp) è diventato direttore del TG1: e
mica nel 1943, oggi.
Ricardo Franco Levi, seconda generazione, è stato elevato
anche lui sul raggio di quel potere.
Allevato in Inghilterra dove abitava papà, si considera
«very british» e si veste di conseguenza, ossia come gli
immigrati italiani quando credono di vestirsi da veri
inglesi.
Pare sia stato giornalista a 24 Ore, ma non restano memorie
incisive del suo passaggio.
Di fatto, la sua carriera comincia da direttore,
subito.
Egli ci spiegò che stava per introdurre in Italia il
giornalismo anglosassone, compassato, «i fatti separati
dalle opinioni» e tutto il resto, insomma il vero
giornalismo.
Fondò l'Indipendente e lo diresse.
Chi glielo pagava non è chiaro, probabilmente Mediobanca e
la Fiat.
Nel gergo dei cronisti, che tende ad essere escatologico, fu
una loffa.
Fondato e diretto da Ricardo Franco nel '91, fu s-fondato
nel '92, ossia chiuso senza suscitare proteste nelle masse
dei lettori, contenibili nella solita cabina
telefonica.
Ricardo Franco capì che la sua vocazione era un'altra,
vicina a quella del Renato Mieli prima maniera, a quella di
Ugo Stille direttore della radio alleata: non giornalista,
ma controllore dei giornalisti e delle idee autorizzabili
nella libertà di stampa.
Per conto dei soliti noti.
Viene aggregato a Prodi quando questi diventa presidente
della Commissione Europea, e riceve - come rivelò una
telecamera rimasta aperta - quell'Israel Singer, capo del
Congresso Ebraico Mondiale, che la stessa comunità persegue
per storno di fondi ebraici in un conto svizzero che ha
intitolato «per la mia vecchiaia».
La telecamera mostra il figuro mentre agita il nodoso ditone
sotto il naso di un Prodi intimidito, come se gli desse
ordini. un fatto che l'Indipendente non avrebbe certo
pubblicato, nemmeno separato dalle opinioni.
Siamo inglesi, my God.
Il resto è noto.
Ricardo Franco viene eletto nella circoscrizione Lombardia
III nell'Ulivo: uno dei più inspiegati miracoli della
democrazia all'americana (ci piacerebbe conoscere gli
elettori).
Viene elevato dal raggio di teletrasporto a sottosegretario
alla presidenza del consiglio, ossia Prodi;
e da Prodi riceve la delega per la stampa.
Di cui fa l'uso che sappiamo: i siti internet devono
registrarsi in apposito registro, preludio a misure e
provvedimenti restrittivi, magari di natura fiscale.
Insomma il lavoro che per i superiori comandi svolse il
primo grande Mieli in uniforme yankee, prima di sorbirsi
«dieci anni da comunista»: l'autorizzazione, il controllo,
la epurazione soft.
E' questo particolare, più che la somiglianza fisica, a far
ritenere che Ricardo Franco sia il felice padre di quel
Michael Levi del Council on Foreign Relations.
La voglia di controllo sull'informazione deve essere nel
DNA.
Gli infaticabili studi sul terrorismo islamico non consumano
tutto il tempo del giovane Levi né esauriscono la sua
energica intelligenza; Michael trova il tempo di chiedere la
mia espulsione dall'ordine dei giornalisti.
Ecco la sua lettera:
«Lettera al presidente dell'ordine dei giornalisti, ancora
su Blondet 29/03/2007
Egregio Signor Abruzzo,
non ho ricevuto, fino ad oggi, nessuna sua risposta al
riguardo delle segnalazioni che le ho fatto nei giorni
scorsi sul giornalista Maurizio Blondet.
Purtroppo mi ritrovo con un nuovo articolo vile,
diffamatorio, antisemitica, colmo di odio religioso ed
intolleranza che è stato pubblicato su EFFEDIEFFE e scritto
da Maurizio Blondet.
E' una grandissima vergogna ed è intollerabile che nessuna
azione venga presa.
Blondet è una vergogna per l'Italia e per la professione
dei giornalisti. La prego di prendere azione con
urgenza».
Un'altra mail spedisce, il Michael dal CFR, contro Antonio
Caracciolo, che ha un blog che si chiama Civium
Libertas.
Poiché Caracciolo ha criticato la comunità romana per aver
sequestrato un tribunale italiano militare colpevole di aver
assolto Priebke, e per di più si dichiara simpatizzante di
Forza Italia, è a questo partito che scrive il controllore
di terza generazione:
«L'attacco di Antonio Caracciolo alla comunità Ebraica
Romana è inaccettabile ed una vergogna.
Vi prego di verificare e prendere provvedimenti.
Michael Levi».
Quali provvedimenti esige, lo specifica.
Imperioso come sempre, scrive a Forza Italia:
«Quello di Caracciolo potrebbe sembrare uno dei tanti blog
di odiatori di Israele e degli ebrei, di cui la rete pullula
- Se non fosse per il fatto che Caracciolo si presenta come
militante di Forza Italia. Partito che, se non condivide le
aberrazioni di questo personaggio, dovrebbe sancire
pubblicamente la propria estraneità. E diffidare Caracciolo
dal continuare a ostentare la sua 'militanza'.
Michael Levi».
Micael Levi tempesta anche Informazione Corretta, caso mai a
questa benemerita istituzione fosse sfuggita una delazione
per le sue schedature.
«Intolleranza su un sito cattolico 23/08/2007. Vi segnalo
il sito Crismon, e in particolare alcuni articoli che sono
stai pubblicati in questo sito. In alcune fazioni cattoliche
c'è una nascente e crescente intolleranza religiosa e
dovrebbe essere corretta dalle più alte istituzioni della
Chiesa. [..] Mi auguro che questa volta qualcuno abbia il
coraggio di intervenire con decisione ed in tempo debito. Il
sito è il seguente: http://www.crismon.it/
Michael Levi».
Contro il sottoscritto, Levi III ha scritto, come sappiamo,
a Nexus (minacciando la campagna di delazione contro le
inserzioni pubblicitarie) e anche al professor Moffa del
Master Mattei.
Il tono è sempre lo stesso: egli intima radiazioni
dall'ordine, egli ordina a un partito di espellere un suo
membro, egli vuole che gli insubordinati vengano diffidati,
egli pretende che il Vaticano intervenga contro un sito
«con decisione e in tempo debito», egli esige «azione»
onde sia vietata la «professione giornalistica» a questo e
a quello.
Non so che idea si sia fatto della libertà di espressione
Michael Levi vivendo in America.
La sua sembra meno anglosassone che sovietica, da lì veniva
l'invito all'azione, alla radiazione, all'espulsione e al
licenziamento dei deviazionisti.
Oppure, a piacere, da qualche regime fascista.
«Vi prego verificare e prendere provvedimenti» è una
frase di quelle che scriveva Farinacci.
Forse qualcuno dovrebbe spiegare al signorino che in Italia,
l'ordine dei giornalisti può anche radiare, ma non per
questo impedire di scrivere (vedi il caso Betulla).
E che un giornalista in pensione che scrive sul suo sito non
può essere silenziato direttamente, sicchè occorrerà
segnalarlo alla «squadretta» dei bastonatori romani che
picchiano impunemente chi non la pensa come loro.
Ma questo è, appunto, fascismo.
Non si vorrebbe che il Michael Levi esprimesse un ideale di
controllo che ancora non esiste, ma che già - stando al
Council on Foreign Relations dove Arrigo Levi ha ancora
tanti amici, e orecchiando quanto vi si dice - ha qualche
motivo di ritenere di prossima, imminente
instaurazione.
Difatti, in quella sede troppo prestigiosa per lui, il
«Fellow» Michael Levi si occupa ossessivamente di
terrorismo nucleare.
Ha scritto un libro fresco fresco, «On nuclear terrorism»,
dove (dice lui) «in base alla nostra [di chi?] lunga
esperienza di terrorismo propone nuovi principi per
difenderci da minacce nucleari».
Dall'aprile scorso, egli tiene un dibattito online sul tema:
«How Likely is a Nuclear Terrorist Attack on the United
States?», ossia, «Quanto è probabile un attentato
terroristico nucleare sugli Stati Uniti?».
Un altro tema, ottobre 2007: «In the Search for Loose
Nukes, a Little Propaganda Goes a Long Way», Micahel Levi
spiega: «Beccare i malfattori armati di ordigni atomici è
più difficile di quanto sembri.», e propone: «Invece di
cercare un sistema di intercettazione perfetto al 10 %,
politici astuti stanno sviluppando una strategia: né troppa
né troppo poca sorveglianza. Questo piano che si ammette
imperfetto è inteso a convincere i terroristi che anche
solo tentare un attentato nucleare è futile. basta
dispiegare una strategia di pubbliche relazioni o propaganda
che faccia loro credere che 'gli stiamo addosso' ».
Testuale.
Avete seguito bene il ragionamento?
Per Levi è più urgente la sorveglianza totale sui
giornalisti italiani pensionati critici di Sion, contro i
quali occorre «intervenire con decisione e a tempo
debito», che la sorveglianza su terroristi eventualmente
dotati di armi nucleari, mentre le stanno trasportando
(come? Sul camion della premiata ditta di traslochi Urban
Moving Systems?) nel territorio americano.
Per questi eventuali portatori di testate nucleari in
valigia, è inutile mettere a punto «un sistema perfetto al
100% di intercettazione»; basta fargli credere che «gli
stiamo addosso», con «un po' di propaganda».
Magari qualcuno sarebbe indotto a consigliare il papà, se
Ricardo Franco non sconfessa questo rapporto parentale, di
sottoporre il figlio a trattamento con psicofarmaci, di cui
Michael sembra urgentemente bisognoso.
Ma questo qualcuno sarebbe in errore.
Se questa è psicopatia, non è uscita dal cervello di Levi
Michael.
E' uscita da quello di Dick Cheney: «Il più grande rischio
oggi è un 11 settembre perpetrato non da un gruppo di
terroristi armati di biglietto aereo e di taglierini, ma di
un'arma nucleare nel mezzo di una delle nostre città», ha
detto il noto vice-presidente alla CBS («Face the Nation»,
15 aprile 2007).
Poche settimane prima, nel febbraio, Zbig Brzezinsky (guarda
caso, uno dei capi del Council on Foreign Relations) aveva
confidato al Congresso in audizione un suo timore: un
attentato «false flag» sul territorio USA che avrebbe dato
il destro all'Amministrazione di attaccare l'Iran.
E più recentemente, c'è stato il misterioso volo del B-52
armato con sei missili a testata atomica che stava andando
chissà dove, in base a quali ordini, con le testate
innescate, attraverso tutti gli Stati Uniti.
In aperta violazione delle procedure e della catena di
comando, il che ha fatto pensare agli ordini di qualcuno che
sta sopra alla catena di comando militare, ossia a Dick
Cheney.
Se non fosse stato per la decisa azione di alcuni militari,
forse l'attentato nucleare paventato (ma non tanto) da
Michael sarebbe già realtà.
Tuttavia, a quanto pare, uno dei sei missili è
scomparso.
Insomma la follia di Levi, questo junior fellow del Council,
è condivisa al più alto livello decisionale.
E sicuramente dopo il nuovo e più atroce 11 settembre il
primo provvedimento sarebbe instaurare quel tipo di libertà
di stampa cui Michael anela, anzi dà per già in vigore:
chiudere la bocca al web. Ecco l'urgenza, contro il
terrorismo atomico.
Ma no, speriamo di no.
Speriamo che Michael Levi non sia figlio di Ricardo Franco
il segretario, né nipote del nonno Arrigo.
Speriamo che sia un Levi qualunque.
Certo è strano: sembra abituato da sempre a trattare i
giornalisti italiani come suoi camerieri, a dare ordini come
alla servitù di casa, aspettandosi d'essere obbedito come
quando i nonni, nel '43, tornarono in Italia con la divisa
dei liberatori.
Dove avrà potuto impararlo, questo atteggiamento?